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Bronzo all’inclusione, oro alla faccia tosta

Settimo Torinese premiata dall’Europa. A casa, però, l’inclusione si fa… per qualcuno

"Bronzo all’inclusione, oro alla faccia tosta"

Umberto Salvi

Chi l’avrebbe mai detto? Settimo Torinese si è aggiudicata la medaglia di bronzo all'European Capitals of Inclusion and Diversity Awards nella categoria under 50.000 inhabitants. Un premio vero, mica micio micio miao miao. E mica assegnato da una bocciofila di quartiere: l’ha dato la Commissione Europea. Roba grossa, da stappare lo spumante e tappezzare i social di cuori, applausi e dichiarazioni piene d’orgoglio.

Eppure, tra i tanti “evviva” digitali, qualcuno ha avuto l’ardire di farsi una semplice domanda: ma siamo sicuri che si stia parlando proprio della Settimo che conosciamo noi? Quella dei marciapiedi impraticabili per chi è in carrozzina, delle barriere architettoniche ovunque, degli alloggi ATC fatiscenti, dei servizi sociali dove a rispondere è un terno al lotto, dell’illuminazione pubblica intermittente come le promesse elettorali?

La risposta, a quanto pare, è sì: è proprio quella Settimo lì, la città amministrata dalla sindaca Elena Piastra già in campagna elettorale per le regionali che si terranno tra 4 anni...

E qui viene il bello. Perché mentre la città si tinge dei colori dell’Europa e l’Amministrazione si prende la scena con comunicati trionfali, in consiglio comunale — quasi in sordina — la maggioranza a guida PD ha approvato una modifica al regolamento degli asili nido. Piccola, eh. Così piccola che quasi non si vede. Fiato alle trombe, rullo di tamburi, da quest’anno cinque posti saranno riservati ai figli dei dipendenti comunali.

Inclusione? Certo. Ma con precedenza per chi lavora in Comune. Gli altri possono pure iscriversi, nessuno glielo vieta. Ma è un po’ come partire da dietro in una corsa a ostacoli dove qualcun altro ha già il traguardo a portata di mano. Inclusione, sì, ma à la carte. Una decisione per il futuro considerando che a Settimo Torinese non c'è nessuno in lista d’attesa.

 

Sui social non si sono fatte attendere le reazioni. C’è chi ha ringraziato ironicamente l’Amministrazione “per aver votato una riserva che esclude chi ha più bisogno”, chi ha ricordato che non ci sono orfani o famiglie monogenitoriali da tutelare, ma solo dipendenti da favorire. E chi ha sbottato con un semplice, lapidario: “Vergogna”.

Ma non è tutto. Mentre si parla di “attenzione alla disabilità”, qualcuno — che con le barriere architettoniche ci combatte ogni giorno — ha suggerito un intervento semplice, concreto, immediato: “Fate controllare i parcheggi riservati ai disabili, sempre occupati abusivamente. Non serve un progetto europeo. Serve solo far rispettare la legge.”.

E un altro ha rincarato: “L’importante è far cassa con le multe per dieci minuti di sosta, non tutelare chi ha davvero bisogno.”

Non mancano gli applausi. Qualcuno scrive “un bel riconoscimento”, altri postano gif festose e sorrisi a tutto schermo. Ma è una minoranza silenziosa, travolta da un’ondata di scetticismo crescente. Sono i lacchè, quelli che vivono per mettere un like. Sono i Piastra boys. Tutto già visto.

L’impressione, netta, è che dietro alla festa mediatica ci sia poco da festeggiare.

Nel comunicato ufficiale l’Amministrazione snocciola i soliti progetti: il SAI diffuso per le famiglie migranti, Casa Mia per i ragazzi con disabilità, Allaninocosta per l’autismo. Progetti veri, lodevoli, certo. Ma già noti, già raccontati, già premiati. Il punto non è se esistano. Il punto è quanto riescano davvero a incidere in un contesto dove l’inclusione.

Perché mentre si sventolano le bandierine europee, nei quartieri si continua a inciampare — letteralmente — nelle barriere fisiche e sociali. I disabili restano esclusi da interi pezzi di città. Le famiglie fragili si arrangiano. Gli sportelli non rispondono. E nei parcheggi riservati, chi dovrebbe controllare… semplicemente non passa.

E allora, forse, il premio dice più sulla capacità di vendere un’immagine che non sulla capacità di trasformare davvero una città. Forse all’Europa basta ricevere belle slide, grafici colorati e parole chiave ben impaginate? Forse per sembrare inclusivi basta raccontarsi bene? Diciamo che Settimo, su questo, è sempre stata maestra.

Solo che inclusione non è priorità ai dipendenti. Non è fare cassa con le multe. Non è scrivere progetti da sventolare a Bruxelles mentre si ignorano le urgenze sotto casa. Inclusione è rimuovere barriere, accogliere tutti allo stesso modo, garantire accesso ai diritti senza corsie preferenziali.

Insomma, più che una medaglia all’inclusione, questo premio somiglia sempre di più a una medaglia al merito per chi sa vendere bene le proprie contraddizioni.

Ma tranquilli: su Facebook, alla fine, siamo tutti uguali. Basta un like per sentirsi inclusi.

Lasciateci dire...

C’è un luogo in Piemonte dove la cittadinanza attiva ha la forma di un workshop, l’inclusione quella di una candidatura europea e il dibattito pubblico... beh, quello si risolve con un post ben impaginato. È Settimo Torinese, città dell’hinterland torinese che si è appena messa al collo una medaglia di bronzo (o di cartone) all’“European Capitals of Inclusion and Diversity Awards”, nella categoria under 50.000 abitanti. Terza in Europa. Sul podio dell’inclusione. Dietro solo ai Paesi Baschi e alla Finlandia. E chissà se pure Helsinki, per competere, aveva riservato cinque posti all’asilo per i figli dei dipendenti comunali.

Settimo convince l’Europa. Non per caso. Qui la cultura della candidatura è un’arte raffinata, una vocazione, quasi una disciplina olimpica. Se esiste un premio, Settimo si candida. Se non esiste, lo si inventa. La città in questi anni ha partecipato a tutto persino alla corsa per la capitale della cultura, il tutto sostenuto da una strategia comunicativa millimetrica, dove ogni post è un evento e ogni evento è un atto di governo.

Nei mesi scorsi si è visto di tutto: il Festival del Verde, quello dei Linguaggi, quello dei Giovani, quello dell’Amministrazione Condivisa, il Nice Festival, e naturalmente il monumentale Festival dell’Innovazione e della Scienza. Non un evento: un ecosistema. Un carrozzone culturale con sede, fondazione, struttura permanente, comitati, panel e budget, guidato da un Dario Netto in equilibrio tra il digitale e il sacrale, tra l’engagement e il calendario scolastico.

Ma se l’Europa legge dossier, a Settimo la narrazione amministrativa è diventata scienza applicata. Le pagine social del Comune sono un inno al presente continuo: abbiamo fatto, stiamo facendo, parteciperemo. Non si governa, si comunica. Non si amministra, si celebra. Ogni foto è un attestato. Ogni frase contiene “inclusione”, "partecipazione", "cultura" almeno una volta. E se l’algoritmo chiede emozione, l’assessorato la consegna col fiocco.

Il paradosso è che la città reale è sempre un passo indietro rispetto a quella raccontata. I marciapiedi continuano a sgretolarsi con ostinazione antifestivaliera, i quartieri popolari non si illuminano con le parole chiave dei bandi europei, i servizi sociali arrancano tra tagli, affanni e rinvii. Ma chi osa ricordarlo viene tacciato di disfattismo. Come puoi criticare una città che ha appena vinto un premio europeo? È l’eterna sindrome dell’applauso: una volta preso, non si può più discutere.

E così l’inclusione, da valore concreto, diventa cornice. Un ideale da mostrare, più che da praticare. L’importante è esserci, partecipare, comparire nel pdf giusto, alla riga giusta. Magari in inglese. Perché se scrivi “intersectional community engagement” al posto di “assemblea di quartiere”, il punteggio sale.

Settimo oggi è questo: un capolavoro di autocomunicazione municipale, un luogo dove il Comune è diventato un centro studi su se stesso. Una città che si candida a tutto tranne che ad ascoltare davvero. Dove la realtà è partecipativa, ma solo per chi ha tempo di collegarsi alle dirette della sindaca.

E allora viva la medaglia. Viva l’inclusione. Ma a un certo punto qualcuno dovrà pur chiedersi se è meglio vincere un premio o meritarselo.

Settimo capitale... di tutto. O almeno ci prova

C’è chi amministra una città e poi c’è chi la candidatura la mette direttamente a bilancio. A Settimo Torinese, negli ultimi anni, candidarsi è diventato uno stile di governo, una visione del mondo, una forma d’arte. Nel 2018 volevano diventare Capitale Italiana della Cultura. Oggi raccolgono una medaglia di bronzo come città inclusiva d’Europa. E nel mezzo? Una catena ininterrotta di partecipazioni, nomination, shortlist, menzioni speciali, festival, piani strategici e PowerPoint che tremano d’ambizione.

Ma torniamo all’inizio: 2018, cinque paginette di dossier con un titolo che dice tutto: “Settimo Torinese: perché no?”. Già: perché no? Una città senza regge, senza cattedrali, senza musei, senza affreschi, senza centro storico, senza turismo. Ma con una narrazione pronta all’uso. E con Gabriele Vacis, regista e intellettuale, brandito come l’Alighieri delle periferie. Perché se non hai monumenti da mostrare, tanto vale mettere in vetrina un regista.

Vacis era ovunque in quel dossier: trasformato in totem vivente della rinascita urbana, punto di svolta sociale, simbolo di coesione, innovazione, resilienza (che all’epoca non si chiamava ancora resilienza, ma poco ci mancava). Citato più volte di quanto si citasse la biblioteca, il teatro o i cittadini stessi. Vacis era la cultura.
Poi Elena Piastra che insieme a Dario Netto (oggi direttore della Fondazione) aveva scritto quel dossier, vinse le elezioni… e Vacis scomparve. Rimosso con la stessa grazia con cui si stacca un adesivo vecchio da un parabrezza. Dal dossier al dimenticatoio in una sola legislatura. La cultura, si sa, è importante. Ma solo se non fa ombra a chi comanda.

Ed è proprio da lì che parte la mutazione: da cultura come esperienza a cultura come sceneggiatura. Da teatro come luogo di visione a comunicazione come spettacolo permanente. Non servono più intellettuali, basta un buon Canva. Non servono registi, basta un hashtag ben scritto. E da allora è un fiorire di festival e candidature. Festival dei linguaggi, dell’amministrazione condivisa, dell’inclusione, del verde, dei giovani, dell’innovazione, delle parole chiave da bando UE.

Fino all’ultima perla: terzo posto all’“European Capitals of Inclusion and Diversity Awards”. Una medaglia di bronzo che suona come un’altra autocertificazione di virtù, ottenuta con un dossier che elenca progetti, piani, visioni, sogni. Tutti molto belli. Tutti molto raccontabili. Tutti molto... da spedire a Bruxelles.

Ed ecco il punto: a Settimo non si governa, ci si candida. Non si trasforma, si racconta. Non si ascolta, si partecipa – purché ci sia un badge e una locandina. La realtà è secondaria. La priorità è apparire nella prossima shortlist.

E se qualcuno fa notare che, nel frattempo, le barriere architettoniche ci sono ancora, le politiche abitative sono un rebus, la manutenzione urbana latita, e che i posti all’asilo si riservano ai figli dei dipendenti comunali... ecco, allora gli si risponde con la foto del premio. Magari con la didascalia in inglese, ché fa più europeo.

Vacis serviva per il dossier. La medaglia serve per il post. Il resto? Accessorio.

E così, dal sogno di diventare Capitale Italiana della Cultura (senza averne né i monumenti, né i luoghi, né più il protagonista) siamo passati alla corsa sfrenata a candidarsi per qualsiasi cosa. Perché a Settimo il futuro non si pianifica: si candida. E se poi qualcosa va storto, pazienza. L’importante è averci provato. E averlo scritto nel curriculum.

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