Cerca

Attualità

Il bambino tra le macerie: Rossellini, Cuorgnè e il dolore che non passa

Alla conferenza Unitre il docente Danilo Vittone racconta Germania anno zero, film capolavoro del 1948 che mostra la guerra con gli occhi di un bambino e ci ricorda, oggi più che mai, quanto sia fragile l’infanzia esposta all’orrore del mondo

Il bambino tra le macerie: Rossellini, Cuorgnè e il dolore che non passa

Il bambino tra le macerie: Rossellini, Cuorgnè e il dolore che non passa

Una conferenza che scuote l’anima, quella tenutasi, qualche giorno fa, all’Unitre di Cuorgnè, dove il docente Danilo Vittone ha condotto il pubblico in un viaggio profondo e doloroso attraverso le immagini di un capolavoro del neorealismo italiano: Germania anno zero, film del 1948 diretto da Roberto Rossellini, terzo tassello di quella che verrà poi definita la "trilogia della guerra", dopo Roma città aperta e Paisà.

Ambientato nella Berlino occupata, a solo un anno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il film è una spietata, lucida e commovente riflessione sulla distruzione morale e materiale seguita alla caduta del Terzo Reich. Rossellini, con il suo sguardo asciutto ma empatico, ritrae una città ridotta in macerie, un mondo in rovina dove le certezze sono crollate insieme agli edifici, e dove l’infanzia – fragile e indifesa – diventa testimone e vittima di colpe non sue.

Il film nasce anche da una tragedia personale. Il piccolo protagonista, Edmund, è interpretato da un bambino scelto proprio per la sua somiglianza con Romano Rossellini, il figlio del regista, morto a soli nove anni nel 1946. A lui il film è dedicato. Una dedica che è già un’epigrafe, una ferita aperta che attraversa tutta la pellicola. Per ottenere l’autorizzazione alle riprese, Rossellini si era rivolto direttamente alla Francia, all’epoca una delle potenze occupanti di Berlino. Aveva anche avviato contatti con Marlene Dietrich, simbolo stesso della Germania libera e antifascista, reduce da una lunga tournée al seguito delle truppe americane. Ma la collaborazione non si concretizzò. Il film, girato tra le macerie vere di Berlino, sarebbe rimasto un’opera cupa e dolorosa, dove la redenzione non arriva mai.

La vicenda è quella di una famiglia berlinese in condizioni disperate. Il padre, vedovo e malato, vive in un appartamento troppo piccolo con i tre figli. La figlia Eva tenta di mandare avanti la casa, mentre il fratello maggiore, Karl-Heinz, ex soldato della Wehrmacht, si nasconde per evitare l’arresto. Il più piccolo, Edmund, tenta disperatamente di aiutare la famiglia, ma viene continuamente sfruttato e umiliato. La fame è ovunque. La miseria è la norma. Un vecchio professore, figura inquietante e cinica, gli inculca l’idea che i deboli devono morire perché i forti possano sopravvivere. È la logica nazista dell’eutanasia, che durante il regime portò all’eliminazione di oltre 200.000 persone disabili. È in questo contesto disumano che Edmund, confuso e manipolato, arriva ad avvelenare il padre, convinto che sia l’unica via possibile per liberarlo dalla sofferenza e per alleggerire la famiglia.

Ma la realtà lo travolge. Edmund, dopo il gesto, si aggira smarrito tra le rovine, incapace di trovare un senso, un conforto, una via d’uscita. Passa accanto a una chiesa, il suono dell’organo pare offrirgli una fugace promessa di redenzione, ma è solo un’illusione. Alla fine, si arrampica su un campanile, guarda la sua casa – dove stanno portando via il corpo del padre – e si getta nel vuoto. Una passante si avvicina al suo corpo esanime. Lo prende tra le braccia. È un gesto che richiama alla memoria la Pietà di Roma città aperta. Ma qui, nella Berlino del dopoguerra, non c’è né fede né speranza. C’è solo la consapevolezza che le colpe degli adulti ricadono sui bambini, che sono costretti a farsi carico di un’eredità di sangue, macerie e silenzi. La cinepresa di Rossellini indugia sul passaggio di un tram: la vita va avanti. Ma per chi ha vissuto l’orrore, per chi è cresciuto tra le rovine morali e materiali di un mondo distrutto, la sopravvivenza non è affatto scontata. Non si esce vivi dalla guerra, sembra dirci il regista. Non nel corpo, non nello spirito.

Il film tace sui lager di sterminio. Una scelta significativa. Forse era già iniziato l’oblio, forse i tempi della Guerra Fredda – con l’Occidente desideroso di voltare pagina e recuperare la Germania come alleata contro l’URSS – imponevano prudenza. O forse, semplicemente, il film voleva concentrarsi sulle conseguenze intime e morali del conflitto, sulle ferite invisibili, su quel dolore muto che segna intere generazioni. In quegli stessi anni, però, prendeva forma l’organizzazione O.D.E.SS.A. (Organisation Der Ehemaligen SS-Angehörigen), una rete clandestina costruita per aiutare ex gerarchi nazisti a fuggire all’estero, soprattutto in Sud America. A proteggerli e finanziarli c’erano anche industriali tedeschi che avevano tratto enormi profitti dallo sfruttamento del lavoro forzato nei campi di concentramento. La giustizia, troppo spesso, rimase un sogno negato.

Rivedere oggi Germania anno zero non è solo un esercizio di memoria, è un atto politico e morale. In un tempo come il nostro, in cui venti di guerra tornano a soffiare, in cui l’infanzia è ancora una volta vittima – in Ucraina, a Gaza, nei tanti teatri dimenticati del mondo – il film di Rossellini torna a parlare. Con voce ferma, con immagini essenziali, con una poesia cruda che ci interroga. Il dolore della guerra non è solo nei corpi, è nelle anime. È nel silenzio in cui spesso lasciamo i nostri bambini, incapaci di dare parole a ciò che vedono e sentono. Germania anno zero è un requiem per l’infanzia tradita, per la speranza perduta, per l’umanità ferita.

Al termine della conferenza, è stato lasciato spazio alla parola poetica, altra forma alta di resistenza e memoria. A leggere i versi, due giovani: una ragazza armena e un ragazzo azero, simboli viventi di un’altra guerra in corso, quella nel Caucaso. Poi le parole della partigiana e poetessa Tullia de Mayo, lette dalla giornalista de La Voce, Caterina Ceresa. E ancora Fumo e aria, poesia di Quinto Osano, i versi proposti dalla prof.ssa Piera Giordano, e infine un testo che è pietra scolpita nella memoria civile: “Lo avrai il monumento, camerata Kesselring” di Piero Calamandrei, letto con emozione dall’insegnante Maria Gabriella Garda. Perché alla fine, di fronte all’orrore, resta solo la voce. La voce di chi ricorda, di chi non vuole dimenticare, di chi – con la parola, con il cinema, con la poesia – continua a dire che un altro mondo è possibile. Ma solo se non chiudiamo gli occhi.

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori