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18 Aprile 2025 - 22:27
Sandro Francesconi
A volte le grandi storie non finiscono con uno squillo di tromba. Finiscono in silenzio, con una porta che si chiude piano, quasi senza farsi sentire. È così che se n’è andata, dopo 120 anni, la Società Agricola Operaia di Scarmagno, una delle realtà sociali più antiche e radicate della comunità eporediese. Nessuna cerimonia, nessuna targa commemorativa, solo una comunicazione sobria durante l’assemblea della Pro loco, e l’ultimo gesto: la devoluzione di ciò che resta – 14mila euro – proprio alla Pro loco, come ultimo atto d’amore verso il paese.
Fondata il 13 febbraio del 1904, quando ancora l’Italia era fatta di borghi e braccia, di fatica e solidarietà, la Società Agricola Operaia non era solo una sigla o un’entità burocratica: era il cuore pulsante di Scarmagno. Un cuore nato per iniziativa di cinque uomini – Pietro Pio, Domenico Vercellono, Ferdinando Gaudino, Michele Maga e Pietro Gaudino – che credevano che l’unione potesse davvero fare la forza. In poco tempo, a quella chiamata risposero 114 persone. Non era solo un’adesione: era un atto di fiducia nel futuro, nella comunità, nella possibilità di non essere soli.
Negli anni in cui lo Stato era lontano, quando la previdenza era un lusso e la solidarietà una necessità, la Società Agricola Operaia rappresentava un rifugio. Un luogo fisico – l’edificio di Vicolo Vercellono 3 – ma anche e soprattutto un luogo morale, dove chi aveva bisogno trovava sostegno, e chi poteva aiutare lo faceva senza aspettarsi nulla in cambio. È lì che si incontravano i lavoratori, i contadini, le famiglie del paese. È lì che si costruiva il senso di appartenenza.
Quel piccolo edificio, che un tempo ospitava l’emporio solidale e poi l’unico negozio di generi alimentari di Scarmagno, era più che una sede: era un presidio umano. Col passare degli anni, però, le luci si sono spente, i soci sono invecchiati, i giovani non hanno raccolto il testimone. E così, dopo tentativi andati a vuoto per salvare il salvabile, si è arrivati alla decisione definitiva: lo scioglimento.
La sede è stata venduta nel 2020 per 15mila euro, cifra simbolica se si pensa alla storia che quei muri avevano respirato. La compratrice è una società di costruzioni torinese, la Cober. Durante i lavori di ristrutturazione, nel 2022, un operaio è rimasto gravemente ferito, cadendo da un solaio. Un altro colpo a una storia già segnata dal destino. Oggi, quello stesso edificio ospita un bed and breakfast. Dall’emporio alla camera matrimoniale, dal mutuo soccorso al turismo: lo specchio perfetto di un’epoca che cambia, e non sempre in meglio.
L’unico a restare, fino alla fine, è stato Sandro Francesconi, ultimo presidente dal 2018 e liquidatore dell’associazione. È toccato a lui firmare gli ultimi documenti, affrontare l’amarezza di chi chiude la porta su un secolo di impegno e fatica. Non perché volesse farlo, ma perché nessun altro ha voluto prendersi quella responsabilità. Perché nel 2022, al momento del rinnovo delle cariche, non si è presentato nessuno. Nessuna candidatura, nessuna proposta, nessun interesse. Il silenzio, ancora una volta, come unica risposta.
Alla fine, quei 14mila euro sono stati donati alla Pro loco, che continuerà – si spera – a mantenere vivo un certo spirito di partecipazione, anche se con modalità diverse. È una scelta fatta con rispetto, con senso di continuità: meglio che quei soldi restino a Scarmagno, piuttosto che perdersi nel nulla.
Ma nessuna somma di denaro potrà mai restituire quello che si è perso. Non sono i 14mila euro, né le carte bollate a raccontare la grandezza di questa storia. Sono le strette di mano nei cortili, le riunioni tra soci, i racconti degli anziani che ricordano quando si comprò la sede nel 1913 per mille lire. Mille lire che non compravano solo mattoni, ma sogni, dignità, comunità.
E oggi? Oggi resta solo un’assenza. Quella della Società Agricola Operaia, ma anche – e forse soprattutto – quella di una coscienza collettiva che sembra svanire. In un’epoca in cui tutto è individuale, in cui le relazioni si misurano in like e non in aiuto concreto, chi si occupa del bene comune è sempre più solo. E chi ha memoria viene considerato vecchio.
Insomma, Scarmagno chiude un capitolo importante. Non perché qualcuno l’abbia voluto davvero, ma perché nessuno ha voluto abbastanza che restasse aperto. E nel farlo, ci ricorda che le comunità non muoiono di vecchiaia, ma di disinteresse.
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