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18 Aprile 2025 - 15:49
Mentre fuori imperversa un autentico tempo da lupi, all’interno dell’aula magna dell’Unitrè di Cuorgnè si accende un'altra tempesta, fatta di domande, entusiasmo, dubbi e meraviglia. È quella dell’intelligenza artificiale, protagonista assoluta della conferenza tenuta dal professor Alberto Turigliatto, docente appassionato e divulgatore instancabile, che ha saputo tenere incollati alle sedie decine di soci, sfidando pioggia e vento con la sola forza della curiosità.
E' successo la scorsa settimana...
L’intelligenza artificiale è già tra noi, ha ricordato Turigliatto sin dalle prime battute, e il nostro rapporto con essa oscilla continuamente tra timore e speranza, tra inquietudine e fascino. Ma per capire davvero cos’è l’AI – o meglio Artificial Intelligence, come la chiamano gli anglosassoni – bisogna fare un viaggio che parte da molto lontano.
Un viaggio che affonda le radici nella storia dell’umanità: da Erone di Alessandria, che nel I secolo dopo Cristo scrive “Sulla costruzione di automi” e crea meccanismi che aprono porte con il calore, passando per Blaise Pascal con la sua Pascalina e Heinrich Schickhardt con il suo Orologio calcolatore, fino ad arrivare alla macchina analitica di Charles Babbage, il primo vero prototipo di computer. Accanto a lui, la visionaria Ada Lovelace, capace di immaginare – con quasi due secoli di anticipo – un mondo dove le macchine potessero pensare.
Ma è nel Novecento che si fa sul serio: con Alan Turing, eroe matematico della Seconda Guerra Mondiale, che decritta il codice Enigma e inventa una macchina teorica che oggi è alla base di ogni nostro computer. E ancora con McCulloch e Pitts, che nel 1943 simulano il comportamento dei neuroni umani, gettando le basi del cervello elettronico. Da lì, tutto si accelera: nasce il termine intelligenza artificiale nel 1955, poi il primo chatbot (ELIZA) nel 1966, fino ad arrivare agli assistenti virtuali dei giorni nostri: Alexa, Siri, Google Assistant.
Oggi l’AI è ovunque. È nelle nostre auto semi-autonome, nei sistemi di guida automatica delle metropolitane, nei dispositivi domotici che regolano la temperatura e le luci di casa, nei sistemi diagnostici ospedalieri, nei software che migliorano l’audio e le immagini delle nostre fotografie. Analizza dati, prevede guasti, suggerisce rotte alternative e ottimizza le nostre giornate con una precisione impensabile solo pochi anni fa.
Eppure, non tutto luccica. Come ha spiegato Turigliatto, l’AI resta ancora lontana dalla complessità dell’intelligenza umana. Non ha senso critico, non ha empatia, non ha coscienza di sé. Una recente ricerca della University of Illinois di Chicago ha dimostrato che le capacità cognitive della più evoluta tra le intelligenze artificiali sarebbero comparabili a quelle di un bambino di quattro anni. Certo, molto promettente, ma ancora lontano da ciò che chiamiamo umanità.
Non basta saper calcolare, prevedere, apprendere. La vera intelligenza è fatta anche di dubbi, di esitazioni, di intuizioni che sfuggono alla logica dei numeri. L’AI può imitare, ma non creare con lo stesso spirito. La creatività computazionale è utile, ma non può sostituire l’originalità umana. E proprio per questo, oggi nessuno stato – salvo rare eccezioni come il Sud Africa o l’Australia – consente a una macchina di essere titolare di un brevetto. La legge parla chiaro: la creatività appartiene ancora a noi.
Tuttavia, i benefici dell’intelligenza artificiale sono sotto gli occhi di tutti. In Europa, il tema è affrontato con serietà e pragmatismo: il Libro Bianco del 2020 e il recente AI Act del 2024 tracciano le linee guida per uno sviluppo etico, sostenibile, che sappia cogliere le opportunità senza cadere nei pericoli.
A concludere la conferenza, una sorpresa. Il professor Turigliatto ha presentato al pubblico Adamo, la sua intelligenza artificiale personale, con cui ha dialogato davanti ai soci: domande, risposte, ma anche qualche battuta, in un’interazione tanto affascinante quanto inquietante. Adamo ascolta, elabora, risponde e – udite udite – fa anche domande, come un curioso tra curiosi.
E allora, la domanda resta sospesa nell’aria: cosa ci rende davvero umani? Forse, come ha detto il docente, la risposta è in una carezza, in un abbraccio, in una parola sussurrata al momento giusto. Perché per quanto potente, l’IA non conosce ancora il calore dell’empatia.
E mentre i presenti si scambiano sorrisi e riflessioni, in attesa della Pasqua, una certezza resta: nessuna macchina potrà mai sostituire il valore di un gesto umano. Nonostante tutta la sua potenza di calcolo.
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