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14 Aprile 2025 - 00:08
Il consigliere comunale Massimiliano De Stefano e Don Arnaldo Bigio
Tutto comincia con una lettera che definire "gelida"e troppo poco. Risale allo scorso 14 febbraio, festa dell’amore, ironia della sorte. E' firmata da don Arnaldo Bigio, presidente dell’associazione L’Orizzonte. Destinatari: una trentina di persone che da tempo vivono nella Residenza collettiva autogestita “Santo Bambino”, in via Varmondo Arborio 18 a Ivrea.
Il contenuto è chiaro e spietato: “per improrogabili lavori di ristrutturazione della struttura e di riorganizzazione dell’accoglienza, la residenza dovrà essere totalmente liberata entro e non oltre il 25 aprile”.
Una frase formale che suona come una condanna. Perché quelle trenta persone – italiani in difficoltà economica, migranti, uomini e donne soli – non sono numeri. Sono vite sospese, scarti di welfare, esseri umani senza più un posto dove andare.
A saperlo, a quanto raccontano gli ospiti, sono tutti: il sindaco Matteo Chiantore, il presidente del consiglio comunale Luca Spitale, l’assessora al sociale Patrizia Dal Santo. Ma finora, nessuno ha agito. Nessuno ha detto: “aspettiamo, troviamo un’alternativa”. Nessuno ha alzato la voce per dire che questa non è una ristrutturazione, ma uno sfratto collettivo nel silenzio delle istituzioni.
La “Santo Bambino” era nata nel 2014, come progetto pilota di accoglienza solidale, fortemente voluto da due protagonisti del volontariato eporediese: don Arnaldo Bigio, allora guida spirituale e sociale dell’associazione L’Orizzonte, e don Silvio Faga, oggi vescovo di Biella, che all’epoca era presidente della Fondazione Canonico Cuniberti. Insieme, avevano sognato una casa per chi era stato sfrattato, per chi non aveva più nulla, per chi era invisibile alle politiche pubbliche.
La parola chiave era autogestione. Non assistenza passiva, ma partecipazione, responsabilità condivisa. Dodici posti, divisi in quattro nuclei abitativi. Cucine comuni, vita in comune. Un tetto, certo, ma anche una comunità da ricostruire. O almeno provarci.
Nel tempo, quei dodici posti sono diventati una trentina di letti occupati. L’emergenza abitativa ha bussato più forte, e qualcuno ha aperto la porta. Finché adesso, all’improvviso, quella porta si richiude.
Massimiliano De Stefano, consigliere comunale, lancia l’allarme: “La situazione dei circa 30 ospiti della residenza collettiva Santo Bambino è inaccettabile. Costringere persone a lasciare le proprie stanze entro il 25 aprile rappresenta una grave emergenza sociale. Dove troveranno rifugio? È fondamentale che il sindaco e il vice sindaco intervengano immediatamente per mediare e trovare soluzioni adeguate”.
Ma la realtà è che il 25 aprile, mentre l’Italia celebra la libertà riconquistata, trenta persone a Ivrea perderanno anche quella poca che avevano conquistato. La libertà di avere un letto, un fornello, un bagno, un posto che chiamavano casa.
Nessuno dice che i lavori non servano. Nessuno nega la necessità di una riorganizzazione. Ma chi si occupa delle persone mentre si mettono a posto i muri? Dove finiscono i corpi e le fragilità mentre si rifanno gli impianti?
Siamo nel 2025. E ancora si confonde la povertà con un problema da sgomberare, non da accogliere.
E così, mentre il Vangelo resta scritto nelle mission dei siti web, nella pratica si chiudono porte, si spegne la solidarietà, si cancella l’autogestione, si archiviano trent'anni di sogni in un cantiere.
Il 25 aprile, la Residenza Santo Bambino chiude. Ma non è una liberazione. È una resa.
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