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12 Aprile 2025 - 17:45
Ci sono uomini che attraversano la Storia in punta di piedi, senza clamore, ma lasciando orme profonde. Uomini che non si raccontano, che non cercano medaglie, ma che vivono con tale intensità e coerenza da diventare, loro malgrado, esempio per chi li incontra e per chi, a distanza di anni, riscopre la loro voce tra le righe sbiadite di un diario. Uno di questi uomini è Cornelio Fornasari, nome di battaglia “Gugia”, partigiano tra le fila della 76ª Brigata Garibaldi, attiva tra il Piemonte e la Valle d’Aosta tra il 1944 e il 1945. Oggi, a quasi ottant’anni dalla fine della guerra, quella voce torna a parlare grazie al libro Il partigiano Gugia, ribelle per amore, pubblicato da Baima & Ronchetti Editore e curato con straordinaria dedizione da Margherita Boffano.
È un libro prezioso, questo. Non solo perché consegna per la prima volta al lettore le parole di un giovane uomo che scelse di ribellarsi per amore, ma perché lo fa con l’autenticità di chi scrive non per tramandare, ma per comprendere. Non per essere ricordato, ma per non dimenticare. Quelle parole, annotate su fogli di ricettari medici, con una calligrafia quasi illeggibile, raccontano la vita nei boschi, la paura, la speranza, l’amicizia, la morte. Ma soprattutto raccontano il senso profondo di una scelta: resistere, non per odio, ma per amore. Della patria, certo, ma ancor più dell’uomo. Del suo valore, della sua dignità, della sua libertà.
Cornelio Fornasari non è un eroe da statua. È un uomo. Ed è proprio questo che rende la sua testimonianza così potente. Lo racconta con delicatezza e commozione il figlio, Pier Maria Fornasari, che ha dedicato oltre due anni, insieme al fratello Paolo, alla riscrittura e alla rilettura di quelle pagine vergate a mano dal padre. Un lavoro fatto in famiglia, con l’aiuto della moglie e della cognata, e con il sostegno dell’editore e della Fondazione Donat Cattin, perché certi ricordi meritano di essere curati come si cura un bene fragile e prezioso.
«Papà è stato un maestro di vita. Ci accompagnava ogni mattina a prendere il bus per Milano e ci veniva a riprendere a fine giornata. Era durante quei tragitti che si parlava di tutto, che si cresceva. Ci chiedeva sempre se eravamo felici». Una domanda semplice, che però racchiude l’essenza di una vita intera. Perché Cornelio, anche nei momenti più duri della guerra o nel silenzio di uno studio medico di provincia, non ha mai perso di vista la cosa più importante: il senso delle cose. Il significato profondo dell’agire. La coerenza tra ciò che si pensa, ciò che si dice e ciò che si fa.
Dopo la guerra, Fornasari non abbandona i suoi ideali: li porta con sé nella vita quotidiana. Si laurea in Medicina nel 1946, lavora all’ospedale di Ivrea e poi come medico condotto in diversi paesi del Nord Italia: San Benigno Canavese, Lemie, Usseglio, Robecco sul Naviglio. Sempre vicino alla gente. Sempre in ascolto. Sempre un passo avanti. È tra i primi a promuovere la prevenzione scolastica, l’assistenza alla gravidanza, la diagnosi precoce delle malattie reumatiche di origine dentaria. Ma non si ferma alla medicina. Vuole fare di più, per tutti. Per i bambini che non mangiano a sufficienza, crea una mensa scolastica. Per i pazienti delle frazioni più isolate, apre ambulatori in ogni angolo del comune. Non era solo un medico: era una presenza. Un punto fermo.
Era, come dice il figlio, un uomo “tutto d’un pezzo”. E per questo, forse, disse no alla politica. Perché non si riconosceva nei compromessi, nelle mediazioni al ribasso. Per lui, i valori erano pilastri. La libertà, prima di tutto. E poi la fede, non come dottrina, ma come bussola interiore. «C’è una frase di Kierkegaard che amava citare: “La nave è ormai in preda al cuoco di bordo e ciò che trasmette al microfono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani”. Voleva insegnarci a non accontentarci, a non sopravvivere, ma a cercare un senso», racconta ancora Pier Maria.
Quel senso, lui lo trovava anche nei gesti più semplici. Come quando donò la sua bicicletta a un lavoratore a cui l’avevano rubata, o quando convinse il figlio a fare altrettanto con un bambino immigrato, costretto a percorrere due chilometri a piedi per andare a scuola. Gesti che oggi sembrano piccoli, ma che allora – e anche oggi – cambiano la vita. Perché raccontano un’idea diversa di società: fondata sulla solidarietà, sulla prossimità, sulla capacità di mettersi nei panni dell’altro.
Tra le pagine del diario, che si leggono come una lunga lettera dal passato, emergono anche le figure di alcuni compagni della Resistenza: Gino Pistoni (Ginas), Walter Fillak (Martin), Ugo Macchieraldo (Mak). Giovani vite spezzate, esempi di coraggio e di lealtà. «Papà ci parlava di loro non per mitizzarli, ma per farci capire che la libertà che abbiamo oggi è stata pagata cara. E che va difesa. Sempre».
In un tempo in cui le parole sembrano perdere valore, e le celebrazioni si riducono spesso a riti svuotati, Il partigiano Gugia restituisce dignità alla memoria. Non con la retorica, ma con la verità. Con la delicatezza di un figlio che riannoda i fili di una vita straordinaria e con l’umanità di un padre che, anche senza saperlo, ha scritto un testamento morale che oggi diventa patrimonio di tutti.
Non è solo un libro da leggere. È un libro da ascoltare. Perché tra le sue pagine non c’è solo una storia: c’è una voce. E quella voce ci chiede, ancora oggi: sei felice? Stai vivendo con un senso? Sei fedele a ciò in cui credi?
Domande difficili. Ma fondamentali. Proprio come il ricordo di Cornelio Fornasari, partigiano, medico, padre, ribelle per amore.
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