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11 Aprile 2025 - 01:33
Paolo Borsellino e gli agenti uccisi
Quando la memoria diventa un ponte tra il dolore e la speranza, allora il ricordo non è più solo commemorazione, ma impegno. Giovedì 10 aprile 2025, nell’Aula Magna dell’Istituto Piero Martinetti di Caluso, il silenzio ha lasciato spazio a parole che pesano come macigni, cariche di storia, sangue, coraggio e verità. Davanti alle classi quarte e quinte, un incontro che non è stato semplice lezione, ma scossa emotiva, testimonianza viva, pugno nello stomaco. Una resa dei conti con la coscienza collettiva, per educare i cittadini di domani a non voltarsi mai dall’altra parte.
Protagonisti dell’incontro, Angelo Corbo, agente sopravvissuto alla strage di Capaci e Claudia Loi, sorella di Emanuela Loi, prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio nella strage di via D’Amelio. Accanto a loro, il mediatore Riccardo Gonella, con il supporto dell’Istituto Erasmo da Rotterdam. Due voci che arrivano dritte al cuore e si imprimono nella mente, capaci di raccontare non solo i fatti, ma la vita dietro ai titoli di giornale.
“Falcone faceva il magistrato, ma era prima di tutto un cittadino che credeva negli ideali”, ricorda Corbo. Ed è in quella Palermo fatta di contrasti, tra la bellezza decadente della Kalsa e la brutalità delle cosche, che prende forma il senso di legalità di un giovane nato in un quartiere marginale, che sceglie la strada più difficile: quella dell’onestà.
Ma lo Stato non fu all’altezza del suo eroe. Il 23 maggio 1992 Giovanni Falcone e la sua scorta viaggiano su un’autostrada dove mancano mezzi, controlli, supporti tecnici. Corbo lo dice chiaro: “Non era interesse di tutti che Falcone vivesse.” La strage era studiata nei minimi dettagli, un’azione militare, chirurgica, mai vista prima in Italia. “Quel giorno, Falcone era ancora vivo. Respirava tra le lamiere, cosciente. E allora ci si chiede: possibile che non sia stato ‘finito’ da qualcuno sotto copertura? Un finto soccorritore, un infiltrato. Perché chi voleva uccidere Falcone non poteva rischiare che sopravvivesse. Sarebbe stato ancora più pericoloso.”
Parole che fanno tremare i banchi, che lasciano i ragazzi senza fiato. Ma non è finita. Cinquantasette giorni dopo, la mafia colpisce ancora. Il 19 luglio 1992, muore Paolo Borsellino, insieme a Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. L’unico superstite è Antonino Vullo.
Katia Milano
La Professoressa Cristina Aimone insieme alla Preside Katia Milano
Da sinistra a destra: Angelo Corbo, ex agente della scorta di Giovanni Falcone, Riccardo Gonella, il mediatore, Claudia Loi, sorella di Emanuela Loi, e il marito Enrico che è stato molto vicino alla moglie con parole importanti sul valore di legalità e la dedizione della famiglia Loi
L'intervento del mediatore Riccardo Gonella
Claudia Loi racconta con voce spezzata la sorella che non ha mai voluto allarmare i genitori, che continuava a dire che era tutto tranquillo, mentre invece camminava ogni giorno sul filo del pericolo. “Un mese prima aveva la febbre. Il medico le consigliò di restare a casa. Ma Emanuela rifiutò. Un collega doveva andare in ferie e lei, pur di non lasciarlo solo, andò. Poteva essere viva oggi. Potevo averla ancora con me.”
Claudia la ricorda così, con dignità e determinazione. Emanuela, che avrebbe voluto fare la maestra e invece scelse di servire lo Stato, senza scorciatoie, senza raccomandazioni, da Sestu a Palermo. Una scelta che pagò con la vita. Dopo la sua morte, il padre si mise al servizio della memoria. Ma il dolore fu troppo: morì cinque anni dopo. Poi toccò alla madre. Oggi resta Claudia, con la forza di chi ha trasformato la tragedia in missione.
E il messaggio che lascia ai ragazzi è limpido, quasi sussurrato ma potente: “Non vivete senza ideali. Credete in voi stessi. Abbiate il coraggio di tentare, di rialzarvi. Solo così si cambia davvero il mondo.”
Poi, ancora Corbo, con una verità che scuote e interroga: “La mafia è anche un comportamento. È ogni volta che non rispettiamo chi ci sta accanto. È ogni volta che ci giriamo dall’altra parte. È dentro di noi, se non abbiamo il coraggio di dire ‘no’.”
Non eroi invincibili, dice, ma ragazzi normali con un lavoro straordinario. “La paura non è debolezza. È umana. È ciò che ti salva la vita.” Ecco perché serve fare squadra, imparare a chiedere aiuto, imparare a esserci per gli altri.
Il mediatore Riccardo Gonella ha ricordato, con amarezza, come oggi sia più facile farsi distrarre da un reality che prestare attenzione a un processo di mafia. Ma ha anche lanciato un appello: servono coscienza, cultura, conoscenza. Serve sapere per essere liberi. Perché i soldi facili delle cosche portano solo a un’uscita: quella con i piedi dritti.
Non basta commemorare. Serve ascoltare, capire, tramandare. Serve che questi racconti diventino parte del nostro vissuto. Che quei nomi scolpiti nelle lapidi parlino alle nostre coscienze. Solo così, un giorno, forse potremo davvero dire che la mafia è sconfitta. Non solo nei tribunali. Ma dentro di noi.
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