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Stronzo, Cacca, Troia, Tromba, Pisello: la maledizione dei cognomi italiani

Umiliati a scuola, derisi sul lavoro, perseguitati dall’anagrafe. In Italia centinaia di persone cercano ogni anno di cambiare cognome per non essere più lo zimbello di tutti. Ma per lo Stato devi motivarlo. Come se non fosse ovvio

Stronzo, Cacca, Troia, Tromba, Pisello: la maledizione dei cognomi italiani

C’è chi eredita fortune, chi immobili, chi aziende avviate con tanto di parcheggio riservato e benefit annuali. E poi c’è chi eredita un cognome. Non un cognome qualunque, ma uno di quelli che trasformano ogni documento ufficiale in una barzelletta, ogni appello scolastico in una gogna, ogni esame universitario in una scenetta tragicomica.

Un cognome imbarazzante, ridicolo, offensivo, inspiegabilmente reale. Non per scelta, ma per sorteggio. Una roulette anagrafica che non perdona. Perché nessuno alza la mano alla nascita e dice: “Eccomi, voglio chiamarmi Pisello, Cacca, Stronzo o Fiasco.” Succede. Succede e basta. E da lì inizia una vita fatta di risolini soffocati, battutine a tradimento, impiegati dell’anagrafe che leggono il cognome, ti fissano un secondo, e poi alzano le sopracciglia come a dire: “Coraggio.” Ma anche professori che fingono di tossire per non ridere, colleghi che “non resistono”, e medici che si scusano in anticipo prima di chiamarti ad alta voce in sala d’attesa.

Per decenni, il problema è stato trattato come una curiosità da giornaletto estivo, alla voce stranezze italiane. Ma oggi la faccenda è più seria di quanto si pensi: il numero di richieste di cambio cognome per motivi di ridicolo è in continuo aumento. La motivazione più frequente? “Per tutelare la mia dignità personale.” La più toccante? “Per evitare traumi psicologici ai miei figli ancora prima che imparino a scrivere il proprio nome.”

Sì, perché spesso non si tratta più solo di sopportare la vergogna su di sé, ma di immaginarsi il figlio, alle elementari, che risponde timidamente “Mi chiamo Giovanni Bastardo” e si porta a casa le lacrime insieme allo zaino. Ed è lì che scatta la decisione: si prende la penna, si scrive al Prefetto, e si tenta la liberazione.

L’ultimo caso, atterrato proprio sulla scrivania del Prefetto di Torino, è quello di una donna che ha chiesto di cambiare il proprio cognome da “Troia” a qualcosa di più neutro. Le sue parole, riportate nella richiesta, parlano di un’intera vita passata a subire umiliazioni, battute e discriminazioni.

Perché alcuni cognomi non lasciano scampo. Alcuni sono dichiaratamente volgari, altri funzionano per assonanza, doppi sensi, accostamenti involontari. Ma l’effetto è sempre lo stesso: la risata facile degli altri, l’imbarazzo profondo di chi lo porta. Basta citare qualche nome realmente presente negli archivi pubblici: Porco, Tromba, Finocchio, Buglione, Culotto, Sesso, Petacchi. Alcuni sembrano usciti da un film comico anni ’70. Ma sono vivi, veri, presenti nelle carte d’identità.

C’è chi riesce a farsene una ragione, a riderci sopra, a trasformarlo in un brand personale. Qualcuno persino ne approfitta: “Cazzaniga, comunicazione d’impatto” recita il biglietto da visita di un creativo milanese. Ma per ogni ironico che cavalca la sua maledizione anagrafica, ci sono decine di italiani che vivono quel cognome come una croce cucita sulla carta d’identità, e ogni tanto anche sull’anima.

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Cambiare cognome in Italia è possibile. Non è semplice, ma nemmeno impossibile. Serve una richiesta scritta al Prefetto, una motivazione credibile, la pubblicazione sull’albo pretorio per 30 giorni (perché magari c’è un lontano parente che ci tiene a mantenere viva la stirpe dei Merdoni) e infine, il via libera. Ma prima di tutto serve coraggio. Perché stai dicendo allo Stato – nero su bianco – che ti vergogni del tuo stesso nome. E lo Stato, diciamolo, non ha mai avuto grande senso dell’umorismo.

Ma il problema vero è che la vergogna non si archivia con una pratica. Non basta un timbro. È un’ombra lunga, che si estende dai banchi di scuola alle riunioni di lavoro, fino alle email di presentazione. “Gentile dottor Cacca, siamo felici di collaborare con lei.” E tu che devi rispondere: “Anche io.” Come se nulla fosse.

Gli psicologi lo confermano: c’è chi sviluppa problemi di autostima, chi evita di parlare in pubblico per non farsi presentare, chi ha lasciato curriculum nel cassetto per non affrontare lo sguardo sbigottito del recruiter. I più giovani ne fanno un meme, i più fragili ne fanno un peso. Un nome può diventare un trauma. E un trauma, a volte, si eredita come un cognome.

Eppure, c’è qualcosa di profondamente e meravigliosamente italiano in tutto questo. Nessun altro Paese ha un’anagrafe tanto bizzarra, tanto creativa, tanto assurda. In nessun altro Stato puoi trovare un geometra Trombini, un pediatra Paura, un avvocato Strano, un giudice Assassino, un deputato Fregoli, o un insegnante di religione che, ironia della sorte, si chiama Satanassi.

Certo, la battuta è dietro l’angolo. Ma per chi quella battuta la subisce da una vita, ogni giorno, non c’è niente da ridere. E così si sogna un cognome neutro, sobrio, grigio. Un bel Rossi, Bianchi, Verdi. Roba da mischiarsi tra la folla e respirare, finalmente, senza dover spiegare nulla a nessuno.

Insomma, chiamarsi in un certo modo può condizionarti l’esistenza più di quanto credi. E no, non sempre basta “prenderla con filosofia”. A volte serve una firma. A volte un Prefetto. A volte basterebbe solo un po’ di compassione.

 

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