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Pagine di storia
09 Aprile 2025 - 00:02
La figura di Arduino d'Ivrea, marchese d'Ivrea e re d'Italia tra il 1002 e il 1014, è stata rappresentata in diverse opere artistiche e storiche.
C’è un re che non trova pace nemmeno dopo la morte. Il suo nome è Arduino d’Ivrea, e la sua storia attraversa interi secoli di vicende politiche, scontri con la Chiesa, furti e persino intrecci amorosi. Arduino nasce in un’epoca turbolenta, a cavallo fra il X e l’XI secolo, quando il Piemonte — e in generale tutta la penisola italiana — è un mosaico di marchesati e vescovati in perenne conflitto. Fiero e bellicoso, si costruisce un potere territoriale attorno alla città di Ivrea, che all’epoca ha un rilievo strategico ben maggiore di quanto si possa immaginare oggi. Poche città italiane possono infatti vantare un legame tanto diretto con un “Re d’Italia”, e proprio questo è lo status che Arduino pretende per sé quando, nel 1002, alcuni nobili lo eleggono sovrano in opposizione all’autorità germanica.
Non è un caso che la sua ascesa arrivi dopo la morte dell’imperatore Ottone III, quando gli equilibri di potere si fanno precari e i feudatari italici più insofferenti al giogo tedesco iniziano a guardarsi intorno in cerca di un leader locale. Arduino, che non manca di audacia, accetta la sfida. Viene incoronato a Pavia, recuperando un’antica tradizione legata alla corona d’Italia, e da lì ingaggia un braccio di ferro con Enrico II di Baviera, deciso a reclamare lo stesso titolo per diritto di discendenza imperiale. Ma se da un lato combatte contro il potere germanico, dall’altro Arduino deve fare i conti con l’ostilità di molti vescovi, scandalizzati dal fatto che egli si sia reso colpevole di gravi atti sacrileghi.
La sua fama di uomo violento si consolida soprattutto con l’incendio del Duomo di Vercelli e l’uccisione del vescovo Pietro, avvenimenti che segnano profondamente la cronaca del 997. Per queste azioni, Arduino subisce la scomunicanon solo dal vescovo Warmondo di Ivrea — che pure era stato in buoni rapporti con lui — ma addirittura da due papi, Gregorio V e Silvestro II. Tale marchio d’infamia lo seguirà per sempre, e la Chiesa non mancherà di ricordarglielo ogni volta che si parli di sepolture, onori o venerazioni post mortem. Ciò non impedisce al nobile canavesano di sostenere la fondazione di Fruttuaria, una nuova abbazia voluta dal monaco Guglielmo da Volpiano, simbolo di riforma e fervore religioso. Sembra un controsenso, ma Arduino era un uomo di contraddizioni, capace di grandi impetid’ira e di slanci di fede.
La lotta con Enrico II e l’ostilità di molta parte del clero rendono travagliata la sua esistenza. I castelli di cui dispone — tra cui i presidi del Canavese — finiscono sotto assedio, i suoi alleati si ritirano o lo tradiscono. Eppure, per alcuni anni, egli regge il titolo di “Re d’Italia” in una penisola frammentata, ben lontana da qualsiasi idea di Stato unitario. Alla fine, stremato dalle continue battaglie, decide di ritirarsi a Fruttuaria, l’abbazia che ha tanto sostenuto, un luogo che diviene rifugio spirituale ma anche bunker ideale lontano dai clamori. Qui, nel 1015, Arduino muore e lascia un’eredità ambigua: da un lato la tradizione di un re autoctono, coraggioso nel voler sganciarsi dall’influenza germanica, dall’altro la nomea di un violento scomunicato.
I monaci di Fruttuaria, probabilmente per riconoscenza verso i suoi lasciti e la sua protezione, lo seppelliscono sotto l’altare maggiore, ricoprendolo di onori regali. Gli pongono accanto la corona, lo scettro e l’anello, esattamente come si farebbe con un re approvato da Dio e dagli uomini. Questa sepoltura rimane indisturbata per seicento anni, accompagnata da un culto locale che nel frattempo ha assunto il sapore di leggenda. Nel Seicento, però, un nuovo protagonista si affaccia sulla scena: Bonifacio Ferrero, cardinale e abate commendatario di Fruttuaria, decide che quella tomba è inaccettabile. Perché mantenere i resti di un “ribelle” ripetutamente scomunicato sotto l’altare di un’abbazia benedetta? La storia narra che Ferrero, in un eccesso di zelo ortodosso o forse attirato dal prestigio (e dai gioielli) di un re decaduto, fa disseppellire le ossa e le fa gettare in un orto qualunque, come fossero miseri resti di un malfattore qualsiasi. Per quanto riguarda la corona, lo scettro e l’anello, scompare ogni traccia: c’è chi racconta che siano stati trafugati dallo stesso cardinale, chi immagina un mercato clandestino di reliquie regali, chi più semplicemente ipotizza una dispersione nelle sacrestie.
Se la vicenda si fosse conclusa qui, parleremmo di un epilogo infamante: il primo re d’Italia dimenticato in un orto, annichilito dall’ira della Chiesa. Ma la storia prende un’altra piega. Un nobile canavesano, Filippo di San Martino d’Agliè, convinto di discendere direttamente da Arduino, giudica intollerabile questa umiliazione. Recupera le ossa e le trasferisce segretamente al castello di Agliè, che diventa il nuovo custode della salma. Lì, per circa un secolo, i resti di Arduino riposano all’interno di una cassetta gelosamente custodita nella cappella, al riparo da sguardi indiscreti e da ulteriori profanazioni.
Nel 1764, il castello di Agliè, completo di tutti i suoi arredi e segreti, passa in eredità al re di Sardegna Carlo Emanuele III. L’episodio non sfugge a Cristina di Saluzzo-Miolans, moglie dell’ultimo proprietario: donna di forte carattere e malvista a corte, decide che non permetterà ai Savoia di mettere le mani anche sulle ossa del re d’Ivrea. Perché un sovrano scomunicato, in contrasto con l’impero e avversato da molti prelati, dovrebbe finire nelle collezioni della monarchia? C’è di mezzo, si mormora, anche una rivalità personale: la marchesa avrebbe temuto di perdere ogni influenza politica e sociale con il passaggio a una dinastia che non la apprezzava. In più, la donna intrattiene una relazione amorosa con Carlo Francesco Valperga, conte e anch’egli discendente di Arduino. Insieme organizzano un piccolo colpo di scena: trafugano la cassetta e la portano al castello di Masino, dove la depositano in un luogo più discreto e sicuro.
Dopo tante peripezie, la storia delle ossa di Arduino sembrerebbe destinata a concludersi in un ennesimo rifugio privato. E invece, con l’arrivo dell’Ottocento, la sua figura si carica di un significato nuovo. In piena epoca romantica, quando gli ideali di libertà e di riscatto nazionale cominciano a germogliare in tutta la penisola, Arduino viene riscoperto come una sorta di precursore dell’unità italiana: un re che, in tempi remoti, avrebbe osato contrastare l’influenza dei tedeschi, un simbolo da elevare a mito patriottico. Nel 1827, si celebra una cerimonia solenne che vede protagonisti i sovrani Carlo Felice di Savoia e Maria Cristina di Borbone: le spoglie, custodite al castello di Masino, vengono deposte in un’arca ornata di insegne e simboli dal sapore eroico, incise con motti come sans despartir, quasi a voler consacrare il re Arduino come un fulgido esempio di fedeltà all’Italia.
Il paradosso è evidente: un uomo che la Chiesa non ha mai riabilitato, scomunicato non una ma tre volte, diventa protagonista di una celebrazione ufficiale, con la partecipazione di quella stessa monarchia sabauda che, per secoli, ne aveva preso le distanze. Così cambiano i tempi e, con essi, la memoria storica. Oggi, chi varca la soglia del castello di Masino, di proprietà del FAI, può ammirarne la bellezza architettonica, i giardini all’italiana, gli arredi antichi e una biblioteca ricca di volumi rari. Ma, soprattutto, può scoprire nella cappella quell’arca misteriosa che custodirebbe le ossa del primo re d’Italia, depositarie di un destino degno delle più complesse trame d’avventura.
Resta incerto, per ragioni ovvie, che i resti conservati siano davvero quelli di Arduino. Non esistono analisi o test genetici in grado di sciogliere ogni dubbio, e l’alternarsi delle vicende — tra orti, tombe e fughe notturne — ha sicuramente mescolato verità e fantasia. Ma a molti, forse, questo aspetto interessa relativamente. Le ossa del re, vere o presunte, rivestono un grande valore simbolico, perché raccontano la persistenza di un mito locale elevato, in epoca risorgimentale, a mito nazionale. Raccontano di un’epoca in cui il confine tra religione e potere politico era sottilissimo, in cui le scomuniche potevano stravolgere destini, e in cui addirittura la morte non metteva fine alle vicende di un sovrano.
In fondo, l’inquietudine che permea la vita di Arduino — fra guerre, incendi di chiese, alleanze ruppe e speranze tradite — sembra riflettersi ancor di più nella sua lunga vicenda post mortem: un re che, anziché riposare in eterno, è costretto a muoversi di tomba in tomba, esiliato e recuperato a seconda delle convenienze di potenti, prelati, discendenti e amanti. A ben vedere, tutto questo non fa che aggiungere fascino a una figura divenuta protagonista di cronache, leggende e rievocazioni storiche. Oggi, chi sente parlare di Arduino d’Ivrea può rievocare un Medioevo piemontese intriso di contraddizioni, tra devozione e violenza, politica e fede, culto popolare e proclami di indipendenza. Forse è questo che rende immortale la sua storia: un re senza pace in vita e in morte, ma sempre presente nell’immaginario del Canavese e dell’intera Italia, pronto a ricordarci come passato, potere e memoria si intreccino in maniera più complessa di quanto ci aspetteremmo da un semplice sarcofago di pietra.
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