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Cronaca
08 Aprile 2025 - 18:22
A volte la politica sa essere davvero spietata. Altre volte, semplicemente grottesca. È il caso di Natalino Pastore, eletto consigliere comunale a Settimo Torinese il 20 giugno 2024, ma protagonista di una vicenda che più che un contenzioso amministrativo sembra uscita da una sceneggiatura tragicomica.
Pastore, che si difende da solo senza avvocati, aveva scoperto con sgomento e colate di vomito che nella sezione elettorale n. 44, dove avevano votato suoi amici, parenti e sostenitori, non gli era stata assegnata neanche una preferenza. Zero. Nulla. Il vuoto cosmico. Uno choc talmente grande da spingerlo a ricorrere al Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte per chiedere il riconteggio delle schede. Le controparti? Il Comune di Settimo Torinese e Patrizia Perri.
L’obiettivo? Ottenere quello che lui ritiene un diritto sacrosanto: il riconoscimento del voto espresso dai propri congiunti.
E qui entra in scena la macchina della giustizia amministrativa, con tutti i suoi codici, commi, procedimenti e – soprattutto – il senso del ridicolo ben calibrato. Il TAR, infatti, ha preso in mano il ricorso e, già in udienza, aveva fatto presente la possibile inammissibilità per “genericità delle censure”. Tradotto: troppo vago, troppo confuso, troppo poco giuridico.
Già, perché Pastore si era limitato a raccontare che “diverse” persone avrebbero scritto il suo nome sulla scheda.
a quante? Due? Cinque? Venti? Nessuno lo sa. Neppure lui. E questo è il punto.
Tant'è! Adesso però una decisione c'è ed è amara... Il TAR, nella sentenza firmata dal presidente e relatore Gianluca Bellucci con i referendari Andrea Maisano e Alessandro Fardello, lo dice chiaro: il ricorso non indica l’esatto numero delle schede contestate, né spiega quale differenza in termini di voti potrebbe effettivamente incidere sulla distribuzione dei seggi.
In più, la motivazione alla base del ricorso, secondo i giudici, è qualcosa che sfiora l’assurdo: Pastore non sostiene di essere stato penalizzato in termini di elezione, ma lamenta che non sia stato riconosciuto il voto dei suoi congiunti.
Peccato però che – e questo lo ribadisce anche la giurisprudenza – l’interesse “affettivo” non ha rilevanza giuridica.
Insomma, il TAR non si occupa di delusioni familiari o tradimenti elettorali da parte dei cugini. E nemmeno accetta dichiarazioni giurate che parlano vagamente di “alcune schede”, come se ci si trovasse al mercato del sabato mattina.
Nel frattempo, tra le comparse non protagoniste di questa farsa legale, brilla per strategica assenza la figura di Severina Patrizia Perri, classe 1962, imprenditrice, parrucchiera e consigliera comunale eletta nella lista “Piastra Sindaca”.
Proprio lei è la controinteressata nel procedimento: in teoria, avrebbe potuto perdere qualcosa in caso di riconteggio. Ma non si è neppure costituita in giudizio. Nessun avvocato, nessuna difesa, nessuna memoria: ha vinto semplicemente stando zitta, lasciando che l’avversario si autoaffondasse con la sua stessa inconsistenza.
La morale? In un’aula che avrebbe potuto ospitare un caso degno di Agatha Christie, è andata in scena una commedia da cortile, con un finale già scritto: ricorso inammissibile, niente spese di lite (tanto Comune e controparte non si sono nemmeno presentati) e un chiaro messaggio per i futuri contendenti elettorali: se vuoi contestare l’esito del voto, porta fatti, numeri, prove. Non le chiacchiere degli zii al pranzo della domenica.
Insomma, Pastore resta comunque in Consiglio comunale, ma con la beffa di non aver ricevuto, almeno ufficialmente, neanche il voto di chi gli vuole bene. E con una sentenza che, se letta tra le righe, sembra dire: “Caro consigliere, forse la prossima volta è meglio fidarsi meno dei parenti e più del presidente di seggio.”
C’è qualcosa di profondamente italiano – quasi antropologico – nella vicenda tragicomica che ha visto protagonista Natalino Pastore, consigliere comunale di Settimo Torinese. L’uomo è stato regolarmente eletto lo scorso giugno nella lista “Piastra Sindaca”, ma ha deciso di portare il suo Comune e persino lo Stato davanti al Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte. Perché? Perché in una sezione, la numero 44, dove avevano votato parenti, amici, cugini, cognati e – immaginiamo – anche il vicino di casa che gli innaffia i gerani, non gli è stato attribuito nemmeno un voto.
Apriti cielo. Una tragedia greca in salsa piemontese. Un affronto personale, un’onta da lavare con il sangue del diritto amministrativo. E così parte il ricorso: allegati, testimonianze, dichiarazioni giurate dei rappresentanti di lista, i parenti pronti a giurare sull’altare della preferenza mancata. Ma Pastore, come già detto nella sentenza, si dimentica un dettaglio fondamentale: i numeri. Quante schede contesta? Quanti voti gli mancherebbero? E soprattutto: che differenza farebbero? Spoiler: nessuna, visto che è stato comunque eletto.
E qui veniamo al punto. Ma quanto ci costa tutto questo teatro?
Già perché ogni ricorso, anche quello più grottesco, richiede una macchina amministrativa che si mette in moto: giudici, cancellerie, notifiche, udienze, verbali, sentenze. C’è un presidente di sezione (in questo caso Gianluca Bellucci), ci sono due referendari (Maisano e Fardello), c’è il personale amministrativo, c’è una segreteria, ci sono i costi vivi della procedura. Tutto per decidere se i parenti di Pastore lo abbiano votato davvero.
Non siamo solo al paradosso, siamo alla patologia del ricorso inutile, che in Italia ha ormai assunto lo status di sport nazionale, ben più praticato del ciclismo o della pallavolo. Con l’aggravante che, a differenza dello sport, qui si pagano arbitri e stadio anche quando il pubblico è assente e la partita non serve a niente.
In un Paese in cui la giustizia amministrativa è intasata, dove i cittadini aspettano mesi (quando va bene) per vedere riconosciuti diritti veri – case popolari, concorsi truccati, permessi negati – ci tocca assistere a cause surreali, figlie di ego ipertrofici e di una burocrazia che, purtroppo, deve occuparsene comunque. Perché la legge impone di trattare tutti allo stesso modo, anche chi pretende che lo zio Mario testimoni il proprio voto a margine di un’elezione già vinta.
Ma non finisce qui. A rendere il tutto ancora più paradossale è l’altro personaggio della vicenda: Severina Patrizia Perri, la consigliera comunale “controinteressata”. Lei non si presenta, non si costituisce in giudizio, non dice nulla, non scrive nulla. Non ne ha bisogno. Vince per assenza dell’avversario, o meglio: per la presenza disordinata e pretenziosa di un ricorrente che ha confuso l’aula di giustizia con un pranzo domenicale in famiglia.
Morale? Spendiamo soldi pubblici, tempo dei giudici e risorse di segreteria per difendere un principio inesistente: che il voto dei parenti debba valere più di quello degli altri. Che si debba riaprire l’urna perché il cugino assicura di aver messo la croce sul tuo nome. E che, soprattutto, tutto questo abbia senso anche quando non cambia nulla: Pastore era dentro prima, è dentro dopo. Ma il principio, si sa, è sacro. Anche quando è ridicolo.
Ci piacerebbe sapere quanto costa ogni singolo ricorso al TAR. Quanto vale, in termini di tempo e denaro, ogni “preferenza smarrita”, ogni “scheda dubbia”, ogni capriccio mascherato da diritto elettorale. Perché qui non stiamo parlando solo di Natalino Pastore. Stiamo parlando di un sistema che consente, legittima e asseconda, anche il peggiore narcisismo da campagna elettorale.
E quindi sì, questo è l’editoriale sulle cazzate che ci costano care. Quelle scritte nero su bianco, protocollate, vidimate, e che impegnano le istituzioni, i magistrati e perfino l’autorità amministrativa. Un sistema che, ancora una volta, dimostra che in Italia non si butta via niente. Nemmeno un ricorso senza capo né coda.
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