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06 Aprile 2025 - 18:04
foto archivio, il dramma della Phos
Un cantiere per provare a rianimare una piazza. Succede a Rocca, dove sono iniziati i lavori per l’ampliamento dell’ingresso in Piazza Vittime del Lavoro, uno spazio rimasto per anni senza identità e senza funzione. Il progetto prevede la demolizione del muro dell’ex area cantonieri, dietro al municipio, per permettere l’accesso a doppio senso di marcia. Un intervento contenuto, ma carico di significato: abbattere un muro per tentare di riaprire un luogo alla vita della comunità.
L’opera rientra nel piano di rigenerazione urbana avviato dall’Amministrazione comunale, che punta a rendere il centro più vivibile e accogliente, restituendo centralità a spazi da troppo tempo marginalizzati. La piazza, infatti, è oggi accessibile solo con senso unico e scarsamente utilizzata. L’abbattimento del muro e la riduzione dell’area municipale tecnica permetteranno una nuova viabilità, ma soprattutto una nuova visione: trasformare la piazza in uno spazio d’incontro, memoria e socialità, qualcosa che richiami — almeno nello spirito — le antiche agorà.
L'attuale piazza del Mercato
Un primo passo simbolico era già stato compiuto a ottobre 2023, con la posa del monumento in memoria del vicebrigadiere Benito Atzei, collocato proprio in piazza. Ma per capire come si è arrivati fin qui bisogna risalire agli anni Duemila: nel 2004-2005 la piazza era stata riqualificata grazie a un contributo ministeriale di 100 mila euro, con la condizione di ospitare il mercato per almeno dieci anni. Alla scadenza del vincolo, il mercato è tornato nella sede originaria di Piazza Osella, e l’area è rimasta inutilizzata, trasformandosi in un vuoto urbano che né cittadini né istituzioni sono riusciti a colmare.
Nel marzo 2024 è arrivato il cambio di nome, fortemente voluto per restituire valore simbolico a quello spazio: Piazza Vittime del Lavoro, dedicata a chi a Rocca ha perso la vita sul lavoro, nel centenario dell’incendio della fabbrica Phos, tragedia spesso dimenticata che segnò profondamente la storia locale.
Ora il Comune ci riprova. Con mezzi limitati, ma con l’intento dichiarato di ricucire uno strappo tra il paese e i suoi luoghi, di restituire significato a una piazza che per troppo tempo è stata solo un nome sulle mappe.
Che basti un nuovo ingresso per farla tornare viva, non è dato saperlo. Ma ogni comunità ha il diritto — e il dovere — di riprendersi i suoi spazi. E ogni piazza, se abitata, può tornare a essere tale.
C’erano una volta delle bambine che facevano i fiammiferi. Avevano mani piccole, occhi chiari e il grembiule sporco di polvere. Si chiamavano Maria, Claudia, Giovanna, Adelina. Avevano tredici, quattordici, quindici anni. Ridevano, forse sognavano una paga che bastasse per comprare le scarpe nuove. Lavoravano ogni giorno in una fabbrica nel cuore del Canavese, nascosta tra gli alberi e le montagne, in una valle che non faceva notizia. Quel giorno, il 15 marzo 1924, non tornarono a casa.
Alle 17.10, a Rocca Canavese, piccolo paese aggrappato alla valle del Malone, una esplosione improvvisa squarcia il silenzio e accende l’inferno. La fabbrica Phos, insediata da pochi anni nei locali di un vecchio mulino, prende fuoco. La sezione centrale, quella dove si confezionavano i fiammiferi, viene completamente sventrata. I corpi delle operaie dilaniati, carbonizzati, inghiottiti dalle fiamme insieme ai loro sogni. Nell’ala destra, dieci milioni di fiammiferi, dopo qualche secondo si accendono come un’unica torcia funebre.
Ventuno persone morirono, diciotto erano ragazze. Alcune bambine. La più giovane aveva 12 anni. Si chiamava Giovanna Data. Era la sorella di Domenica, che sopravvisse calandosi con una fune dal primo piano. E poi Anna Maria, Luigina e Adelina Chiadò Puli, tutte e tre tredicenni. Clotilde Jallin, 14 anni. Maddalena e Margherita Peroglio, Margherita Balma Tivola, Angela Ferrando Battistà, Luigia Jallin, tutte tra i 14 e i 15 anni. Maria Molinar Rivarot, Maria Nepote, Claudia Peracchione, Maddalena Peroglio, Teresa Balma Tivola, tra i 16 e i 17. Emilia Nepote, 19 anni. E ancora: Giacomo Anglesio e Carlo Rostagni, entrambi 25enni. Maddalena Tellar Pandon, 29 anni. Giacomo Pastore Benet, 30 anni. Antonio Baima Poma, 53.
Un’intera generazione spazzata via, senza che nessuno ne abbia mai chiesto veramente conto.
C’erano una volta delle bambine che fanno i fiammiferi. Hanno mani piccole, occhi chiari e il grembiule sporco di polvere. Si chiamano Maria, Claudia, Giovanna, Adelina. Hanno tredici, quattordici, quindici anni. Ridono, forse sognano una paga che basti per comprare le scarpe nuove. Lavorano ogni giorno in una fabbrica nel cuore del Canavese, nascosta tra gli alberi e le montagne, in una valle che non fa notizia. Quel giorno, il 15 marzo 1924, non tornano a casa.
Alle 17.10, a Rocca Canavese, piccolo paese aggrappato alla valle del Malone, un’esplosione improvvisa squarcia il silenzio e accende l’inferno. La fabbrica Phos, insediata da pochi anni nei locali di un vecchio mulino, prende fuoco. La sezione centrale, quella dove si confezionano i fiammiferi, viene completamente sventrata. I corpi delle operaie vengono dilaniati, carbonizzati, inghiottiti dalle fiamme insieme ai loro sogni. Nell’ala destra, dieci milioni di fiammiferi si accendono come un’unica torcia funebre.
Ventuno persone muoiono, diciotto sono ragazze. Alcune sono bambine. La più giovane ha 12 anni. Si chiama Giovanna Data. È la sorella di Domenica, che si salva calandosi con una fune dal primo piano. E poi Anna Maria, Luigina e Adelina Chiadò Puli, tutte e tre tredicenni. Clotilde Jallin, 14 anni. Maddalena e Margherita Peroglio, Margherita Balma Tivola, Angela Ferrando Battistà, Luigia Jallin, tutte tra i 14 e i 15 anni. Maria Molinar Rivarot, Maria Nepote, Claudia Peracchione, Maddalena Peroglio, Teresa Balma Tivola, tra i 16 e i 17. Emilia Nepote, 19 anni. E ancora: Giacomo Anglesio e Carlo Rostagni, entrambi 25enni. Maddalena Tellar Pandon, 29 anni. Giacomo Pastore Benet, 30 anni. Antonio Baima Poma, 53.
Un’intera generazione viene spazzata via, senza che nessuno ne chieda veramente conto.
Eppure, all’inizio, sembra il contrario. Le prime pagine dei giornali nazionali raccontano la tragedia con toni sgomenti: ne scrivono La Stampa, Avanti!, Gazzetta del Popolo, Corriere della Sera. Il Canavese intero si stringe attorno a Rocca: oltre diecimila persone partecipano ai funerali, una cifra impressionante per l’epoca. È lutto vero, popolare, condiviso. Una comunità inginocchiata davanti a ventuno bare.
Ma poi, come una fiamma privata dell’ossigeno, la memoria si spegne. Il 6 aprile si vota: ci sono le elezioni politiche e la propaganda fascista ha bisogno di un Paese ordinato, silenzioso, ubbidiente. Un Paese in cui le fabbriche non esplodono e le ragazzine non muoiono bruciate. Il 10 giugno, l’Italia viene scossa dall’assassinio di Giacomo Matteotti. E la vicenda della Phos viene seppellita, cancellata, rimossa. Solo il settimanale locale Il Risveglio continua a parlarne, riportando i resoconti delle pubbliche sottoscrizioni a favore delle famiglie. Tutto il resto diventa tabù.
Eppure la verità è lì, sotto gli occhi di tutti.
La fabbrica è pericolosa. La lavorazione del fosforo bianco, bandita dalla Convenzione di Berna del 1906, continua a essere utilizzata in Italia. La polvere infiammabile si deposita ovunque, persino sul pavimento. Basta il passo di uno zoccolo di legno per generare la scintilla. Gli impianti sono vecchi, insalubri, inadeguati. Il sindaco Carlo Rostagni, che muore anch’egli nell’incendio, lo denuncia in una relazione alla prefettura: scrive di aver espresso per tempo riserve sulla sicurezza, ma nessuno l’ascolta. In quegli anni l’Italia non è terra di diritti, ma di sfruttamento legalizzato.
La Phos è una multinazionale ante litteram: capitali russi, svedesi, italiani, e radici nei bacini minerari dell’Ucraina. I proprietari conoscono Rocca perché molti operai locali hanno lavorato per loro a Mariupol’ e Juzowka. Tornati a casa, li chiamano “ij Boscavisc”, i bolscevichi. Il nome fa paura, ma la paga di quattro lire al giorno attira. E la mancanza di tutele fa gola a chi vuole solo produrre e incassare.
Dopo l’incendio, la Pretura di Ciriè apre un’inchiesta. Ma i fascicoli vanno perduti nei bombardamenti del 1943. Le assicurazioni pagano solo tredici famiglie, in fretta e furia. La somma? Circa 8.000 lire a testa. Il valore di cinque annualità di salario. Viene stampata una cartolina commemorativa. Poi, più niente.
Fino a quando, negli anni Ottanta, un parroco, don Giacomo Mecca, riapre le pagine bruciate della memoria. Interroga i sopravvissuti, cerca documenti, testimonianze. Una delle poche è proprio Domenica Data, la sorella di Giovanna: “Eravamo contente di guadagnare quattro lire... conoscevo tutte quelle ragazze”, sussurra. La sua voce consente di ricostruire la vicenda. Nel 1999, il Comune di Rocca intitola una via alle vittime della Phos. Nel 2014, una giornata di ricordo riporta la storia nel cuore della comunità. Gli studenti cantano una canzone popolare dell’epoca, raccolta da Daniela Gaiara, musicata da Lo Zodiaco di Caluso. È un lamento, non una denuncia. Ma in quelle strofe c’è tutto:
A Rocca ha distrutto ogni cosa
un incendio che orror,
eran giovani sul fior degli anni
lavoravano con grande ardor.
Oggi, cento anni dopo, ricordare non è solo un dovere. È un atto di resistenza civile. È dire che quelle morti non furono una fatalità. Furono il prezzo della miseria, dello sfruttamento, dell’indifferenza. E che quelle piccole fiammiferaie, figlie del Canavese, non devono essere dimenticate mai più.
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