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Il forno che non vuole morire: a Cesare il tempo si scalda ancora con la legna della memoria

In una frazione con meno di dieci famiglie, un vecchio forno comunitario diventa simbolo di resistenza e identità. Approvata all’unanimità la mozione per il restauro: quel fuoco acceso da secoli chiede solo di continuare a vivere

Il forno che non vuole morire: a Cesare il tempo si scalda ancora con la legna della memoria

Nel silenzio sospeso della frazione Cesare, dove il tempo sembra essersi fermato e le famiglie si contano sulle dita di due mani, c’è un cuore che ancora batte. È il vecchio forno comunitario, affacciato sul versante est della morena, tra i boschi che guardano Scarmagno, in quel lembo di Canavese dove la storia non ha mai smesso di farsi sentire. Non è solo un edificio in pietra: è un simbolo, un testimone vivo di una cultura contadina che non ha voluto cedere all’oblio.

Ora, dopo secoli di silenziosa operosità, quel forno torna al centro della vita pubblica grazie a una mozione approvata all’unanimità dall’ultimo consiglio comunale di San Martino Canavese. A presentarla sono stati due consiglieri di minoranza, con Pietro Cipolla come primo firmatario, lui stesso residente nella minuscola Cesare. L’obiettivo è chiaro: restaurare e preservare un bene che racconta, ancora oggi, il legame profondo tra la comunità e il proprio territorio.

Quel forno, secondo le testimonianze raccolte tra i pochi abitanti rimasti, sarebbe in piedi da quasi un millennio. Una struttura millenaria ancora in uso, in un’Italia che spesso dimentica le sue radici più vere. È questo il paradosso e insieme la bellezza della storia di Cesare.

Ma non è solo folklore: la memoria del forno attraversa i secoli e riemerge anche in un’opera ormai introvabile, la monografia "A gl’irti colli" scritta nel 1989 da don Silvio Tapparo, storico parroco del paese. In quelle pagine si racconta un episodio che sembra uscito da un romanzo storico: nel 1439, per cuocere il pane, il popolo era obbligato a usare il forno del Conte Antonio Pavonato, pagando il cosiddetto fornatico. Un’imposizione feudale che suscitò l’indignazione della popolazione, pronta a ribellarsi.

Fu così che, nel 1467, nacque per volontà della Confraria di Santo Spirito – un’associazione di laici dedicata alla carità – un nuovo forno libero, di tutti. Il gesto provocò una causa lunga e sanguinosa tra la comunità e i Conti, ma nel 1582 il Reale Senato di Torino sancì il diritto del popolo all’autonomia: nessuno poteva più impedire agli abitanti di Cesare di usare e restaurare il loro forno. Dopo pestilenze e guerre, quel forno è ancora lì. Ferito, ma vivo.

Oggi, più di 500 anni dopo, una nuova battaglia si apre, meno cruenta ma altrettanto significativa: trovare i fondi per il restauro. La mozione impegna il consiglio comunale a cercare le risorse necessarie per restituire dignità a quella pietra annerita dal tempo e dalla brace, che ancora sa di pane e di mani callose. Mani che hanno impastato, condiviso, resistito.

Nel 2021 avevamo incontrato Luisa Picco, 83 anni, una donna che di quel forno conosce ogni pietra. Vive a Cesare da 56 anni, da quando da Andrate, suo paese natale, si è trasferita in questa borgata dopo aver conosciuto il marito.

“Qui tutti facevano il pane – raccontava allora – tutti. E io ho sempre aiutato mia suocera. Poi sono iniziati a mancare tutti e la tradizione ha iniziato a perdersi. Neppure noi lo facevamo più”.

Ma è proprio quella memoria, quel profumo di pane buono, che ha spinto Luisa e suo figlio a riaccendere il fuoco. E non solo per loro: quel forno, in passato, ha attirato anche curiosi e visitatori, perfino nomi noti come Bruno Gambarotta. “Ho fatto il pane per lui – ci disse – e poi per altri che volevano vedere questo posto. Anche le televisioni sono venute. A quel punto è stato mio figlio a dirmi: perché non riprendiamo a fare il pane anche per noi? E così abbiamo ricominciato. Sia io che lui”.

Oggi madre e figlio portano avanti, ognuno a modo suo, quella tradizione antica. “Io lo faccio con farina zero – ci spiegava Luisa –, lui con quella integrale. Lui usa il lievito madre. Io quello in polvere”.

E quanto pane esce da quel forno? “Io faccio 5 chili di farina. Lui ne fa quattro. Vengono 11, 13 chili di pane. Quando è ben freddo lo congeliamo. E quando finisce, rimettiamo la legna e torniamo a fare il pane”.

La loro è una storia di famiglia, certo. Ma anche una storia di comunità, di resistenza, di amore per la propria terra. In un mondo che corre veloce e dimentica, Cesare rallenta. E si ricorda.

Anche l'allora sindaca Sandra Rizzato aveva confermato  un progetto per il restauro del forno. Un progetto nato in casa, fatto gratuitamente dalla nuora di Luisa, che di professione è architetto. “Abbiamo già provato a partecipare a un bando della Fondazione Crt – raccontava la sindaca – ma non è andata bene. Alla prima occasione utile riproveremo”.

Insomma, in un borgo che rischia ogni giorno di scomparire dalle mappe, è proprio il profumo del pane a tenere accesa la speranza. Un forno antico, un gesto semplice, una comunità piccola ma ostinata. E la convinzione che, a volte, basta un pezzo di storia per accendere il futuro.

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