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Costume e società

Giari Miclin e la rivincita dei “gagni”: Topolino parla piemontese (e ci fa ridere in dialetto)

Topolino parla piemontese e risveglia la lingua dei nonni: tra ricordi, risate e parole che scaldano il cuore, il fumetto più amato diventa un ponte tra generazioni

Giari Miclin e la rivincita dei “gagni”: Topolino parla piemontese (e ci fa ridere in dialetto)

Altro che Silicon Valley, altro che Metaverso: la vera innovazione culturale del 2025 arriva da sotto i portici di Torino ed è disegnata con orecchie tonde, guanti bianchi e un lessico che sa di bagna cauda. Dopo decenni di “educazione linguistica” a base di “parla bene che se no ti prendono per scemo”, ecco che il dialetto – anzi, il piemontese – fa il suo trionfale ingresso nell’Olimpo dei fumetti: signore e signori, è arrivato Topolino in piemontese.

Sì, avete capito bene. Topolino, il topo globalizzato per eccellenza, quello che dal 1932 incarna l’american way of life con una punta di moralismo zuccheroso e un’irresistibile tendenza a ficcare il naso dappertutto, ora balenga tra le vignette parlando come lo zio Peppino della Val Sangone. E lo fa con assoluta naturalezza, come se l’avesse sempre fatto. Altro che Ratatouille: qui si tratta di Giari Miclin, e il mondo non sarà più lo stesso.

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Dopo le edizioni dialettali in milanese, napoletano, catanese e fiorentino, che già avevano fatto sorridere e sospirare i nostalgici dei tempi in cui “la lingua dei nonni” era ancora viva, arriva ora quella in torinese. Il numero 3619, uscito il 2 aprile, è disponibile solo nelle edicole del Piemonte (con una logica editoriale che grida regionalismo spinto) e, ovviamente, online su Panini.it. All’interno, la storia “Topolino e il ponte sull’oceano”, scritta da Alessandro Sisti e disegnata da Marco Gervasio, viene servita con contorno di "gh'eva na vira che" e "sagrinte nen".

E così Minni diventa Min-i (con un trattino che farà discutere per anni), Pippo si trasforma in Folip (ibrido tra “Filippo” e “fòl”, ovvero scemo in modo affettuoso), e la mitica Topolinia si tramuta in Giarìtpoli, metropoli immaginaria ma neanche tanto, che pare una via di mezzo tra Piazza Castello e la tangenziale sud.

L’iniziativa è firmata Panini Comics e coordinata da un pezzo da novanta del mondo accademico: Riccardo Regis, professore ordinario di Linguistica italiana all’Università di Torino, uno che quando sente dire “dialetto” non cambia marciapiede, ma entra in aula con gli occhi che brillano. Insieme a lui un team di traduttori e dialettologi che, diciamocelo, hanno fatto un lavoro certosino: Nicola Duberti, il “tradutòr” ufficiale in piemontese, ha riportato alla luce parole dimenticate, locuzioni sonore e quel gusto un po’ ruvido, un po’ tenero che solo il nostro idioma possiede.

E già che ci siamo, diciamolo chiaro: questo non è solo un numero da collezione per nerd nostalgici. È una vera e propria operazione culturale, un modo brillante per ricordare a grandi e piccoli che il dialetto non è solo “roba da vecchi”, ma una chiave per leggere (e ridere di) un mondo che abbiamo un po’ dimenticato.

Del resto, lo dice anche Alex Bertani, direttore editoriale di Topolino: “Chi avrebbe mai detto che valorizzare i dialetti avrebbe scatenato una tale ondata di entusiasmo?” Eh già, caro Alex, chi l’avrebbe mai detto? Forse tua nonna, se solo l’avessi ascoltata quando ti sgridava in genovese.

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Ma attenzione: la versione in torinese non è l’unica. Il numero 3619 esce in quattro declinazioni dialettali: romanesco, barese, veneziano e torinese, con tanto di copertina tricolore firmata Andrea Freccero. Ogni regione ha la sua copia localizzata, come fosse un software multilingua, ma senza bug (a parte Gambadilegno, che è un bug umano da sempre). E per i fan veri, la variant cover esclusiva di Paolo Mottura, disponibile al Torino Comics dall’11 al 13 aprile, celebra la città con Mole, bicerin, Gran Balon e pure una 500, ché ci piace vincere facile.

E adesso che succede? Succede che nelle case piemontesi si assiste a una scena che ha del miracoloso: genitori che comprano Topolino ai figli per leggerlo loro, non senza commozione. Bambini che chiedono: “Papà, cosa vuol dire ‘i son mi ch’i m’auss’?” E padri che rispondono con la lacrima facile: “Vuol dire che Mickey Mouse ha smesso di fare il figo e si è ricordato da dove viene.”

Perché poi, diciamolo: se Topolino avesse avuto un passato torinese, non ci sarebbe nulla di strano. Un topo sveglio, sempre in mezzo ai casini, con amici improbabili e una fidanzata che lo rimette in riga… più torinese di così! C’è persino una leggenda urbana che racconta come Topolino sia nato davvero a Torino, tra un disegno sulla carta da macellaio e uno scontrino del Caffè Mulassano. Poi Walt Disney ci ha messo lo zampino – o meglio, la zampa – e lo ha spedito oltreoceano, con buona pace di Minnie, che non voleva trasferirsi perché “la sera, a Los Angeles, mi vien ansia”.

Il dialetto, insomma, è tornato a prendersi la scena. Dopo anni in cui è stato relegato ai bar, alle cucine e agli sfoghi durante il traffico, ora diventa lingua ufficiale del fumetto più famoso d’Italia. E lo fa con stile, senza rinnegare nulla, anzi aggiungendo sapore, sfumature, ironia.

E noi, che da bambini venivamo corretti ogni volta che scappava un “l’é nen vera”, oggi tiriamo fuori le vecchie edizioni di Topolino dagli scatoloni, le mettiamo accanto a questa nuova perla dialettale e sorridiamo. Perché la cultura è anche questo: un ponte sull’oceano, sì, ma costruito con parole antiche, che non affondano mai.

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