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22 Marzo 2025 - 15:11
In carcere (foto archivio)
La prigione, per le persone transgender, diventa una doppia punizione: da un lato la detenzione, dall’altro l’emarginazione sistemica dentro un sistema penitenziario che, pur avendo preso atto della loro esistenza, non garantisce diritti né opportunità reali. È questo il cuore del convegno promosso dal garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri, che si terrà il 9 aprile nella sede della Regione a Bologna. Un’occasione per affrontare con serietà — e dati alla mano — una delle aree più grigie e meno raccontate del sistema carcerario italiano.
Secondo il rapporto 2023 dell’associazione Antigone, sono 69 le persone transgender attualmente detenute in Italia. Una popolazione distribuita in appena sei istituti penitenziari: Rebibbia Nuovo Complesso, Belluno, Como, Reggio Emilia, Napoli Secondigliano e, appunto, Ivrea. Strutture che hanno predisposto sezioni protette o dedicate, spesso pensate per garantire maggiore sicurezza e tutela, ma che di fatto rischiano di produrre isolamento, invisibilità e assenza di diritti.
A Ivrea, i numeri parlano chiaro: sette detenuti transgender vivono in una sezione da venti posti. Ma, come avviene in altri istituti, questa collocazione “protetta” non coincide con una reale inclusione nei percorsi trattamentali. Anzi. Il garante Cavalieri lo dice senza giri di parole: “Istruzione, formazione professionale e accesso al lavoro non sono garantiti. Per queste persone si traduce in un vero e proprio isolamento, con la conseguente violazione di un diritto fondamentale”.
Il carcere, secondo la Costituzione, dovrebbe tendere alla rieducazione e al reinserimento sociale. Ma per le persone transgender detenute questa funzione sembra completamente disattivata. Antigone sottolinea che la collocazione in sezioni speciali, gestite non attraverso regimi formali ma con “circuiti” informali, non consente l’accesso pieno ai trattamenti previsti per tutti gli altri detenuti. Peggio ancora: può trasformarsi in una condizione discriminatoria. “Essere trattati come un’eccezione non significa godere di maggiori diritti, ma espone a pluri-stigmatizzazione e marginalizzazione”, si legge nel rapporto.
A Ivrea come altrove, mancano figure specializzate, personale sanitario formato e percorsi personalizzati. Le terapie ormonali, fondamentali per chi è in transizione, non sono sempre garantite con continuità, e la psicoterapia — altro elemento essenziale — viene spesso sacrificata per mancanza di risorse o competenze. Tutto questo produce una situazione di emarginazione interna, in cui i detenuti trans non studiano, non lavorano e non ricevono cure adeguate.
Nel carcere di Reggio Emilia, la sezione “Orione” è diventata emblematica di queste criticità: attiva dal 2018, viene descritta dallo stesso garante come priva di un’offerta trattamentale paragonabile a quella riservata agli uomini cisgender. La situazione non è diversa nelle altre strutture. A Rebibbia sono ospitate 16 persone transgender su una capienza di 30 posti, a Belluno altre 16, a Napoli Secondigliano 11, di cui solo 8 effettivamente nella sezione dedicata. Anche a Como e Ivrea si registrano condizioni analoghe.
Il convegno del 9 aprile, dunque, non è un evento isolato ma una chiamata pubblica alla responsabilità, che riguarda tutti gli istituti coinvolti. Se è vero che le persone transgender sono poche in termini numerici, è altrettanto vero che sono tra le più esposte alla violenza simbolica e all’abbandono istituzionale. E la detenzione, da strumento di rieducazione, rischia di diventare un buco nero in cui non esiste né reinserimento né dignità.
A Ivrea, come a Reggio Emilia, non bastano le buone intenzioni o le etichette rassicuranti come “sezione protetta”. Servono investimenti, personale, formazione e coraggio politico, per smettere di considerare queste persone un’anomalia e iniziare finalmente a trattarle per quello che sono: cittadini con diritti, anche dietro le sbarre.
Il termine transgender si riferisce a una persona la cui identità di genere non corrisponde al sesso assegnato alla nascita.
In parole semplici: se una persona alla nascita è stata registrata come maschio o femmina, ma crescendo si riconosce in un’identità di genere diversa da quella attribuita (per esempio si sente donna pur essendo nata con corpo maschile, o viceversa), quella persona può definirsi transgender.
Essere transgender non riguarda l’orientamento sessuale (cioè chi si ama o da chi si è attratti), ma l’identità di genere, cioè chi si sente di essere profondamente, a livello psicologico e personale.
Alcune persone transgender intraprendono un percorso di transizione, che può includere terapie ormonali, interventi chirurgici, oppure modifiche anagrafiche (nome e genere sui documenti). Altre scelgono invece di non modificare il proprio corpo, vivendo comunque nel genere in cui si riconoscono.
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