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16 Febbraio 2025 - 19:19
Il titolo in prima pagina del quotidiano «La Stampa» del 10 aprile 1966
Antefatto
Qualche giorno fa, durante una mia lezione sul sistema ferroviario piemontese, tenutasi all’Università della terza età di Brusasco, l’amico Claudio Borio, che ringrazio, mi chiese se io fossi in possesso di notizie riguardanti l’incidente che avvenne il 9 aprile 1966 sulla tratta ferroviaria Chivasso–Asti. Così, mi sono messo alla ricerca delle fonti, peraltro molto esigue, al fine di ricostruire la vicenda in cui perirono cinque persone.
La linea Chivasso-Asti
La linea fu costruita a seguito di concessione prevista dalla Legge Bertolini (dal nome dell’allora Ministro dei lavori pubblici Pietro Bertolini) n. 444 del 12 luglio 1908. L’asta per la concessione delle opere di costruzione fu vinta da un ingegnere svizzero, Jacques Sutter, il quale completò i lavori in soli due anni e mezzo, con cinque mesi di anticipo sulla data prevista. L’esercizio sulla tratta, a binario unico e lunga poco più di 51 chilometri, fu avviato a partire dal 20 ottobre 1912: «Ciò che infatti colpisce di più nel percorrere la nuova linea, ora condotta a termine in tutte le sue parti, è un senso di armonica lietezza, trasparente dalla grazia civettuola dei caselli per guardiani e dei fabbricati delle stazioni che, nel fondo delle valli o aggrappati al breve pendio d’una collina, fondono in sé il gusto di una semplice arte nostrana e la deliziosa visione del paesaggio, in certi punti di una strana ed intensa coloritura elvetica» (La Stampa, 1° ottobre 1912, p. 4).
Spiccavano le infrastrutture costruite: «Con non minore zelo sono state eseguite tutte le altre opere della linea, fra le quali meritano speciale menzione le gallerie ed i ponti. Le gallerie sono tre: la prima si apre a Cortanze e misura 700 metri di lunghezza, l’altra a Brozzolo ed è lunga 2 chilometri e 500 metri; la terza a Lauriano conta 400 metri. Dei ponti, il più maestoso è quello che costituisce da sé una vera e magnifica opera d’arte, lancia le sue dodici superbe arcate per una lunghezza di 310 metri, sul Po, fra Chivasso e San Sebastiano; un altro altissimo ponte, di 60 metri di luce, a travata metallica, sorge sul Canale Cavour, in territorio di Chivasso; tre viadotti, uno a Cavagnolo, di 120 metri, e due nei pressi di Brozzolo, rispettivamente di 60 e 40 metri, completano assieme ai due ponti sul torrente Borbore, nelle vicinanze di Asti, le opere principali in muratura della nuova ferrovia» (La Stampa, 1° ottobre 1912, cit.).
Il disastro ferroviario
Sabato 9 aprile 1966 era una piovosa vigilia di Pasqua; l’automotrice ALn 668 partì alle 22.02 dalla stazione di Chivasso, con quattro passeggeri a bordo, in direzione di Asti, dove sarebbe dovuta arrivare alle 23.16. La littorina, in esercizio fin dal 1963, era di costruzione Breda ed era assegnata al deposito di Asti; alimentata da due motori diesel con potenza di 100 kW ciascuno, che permettevano una velocità massima di 110 chilometri all’ora e un'autonomia di circa 600 chilometri, aveva una capienza di 68 posti, di cui 8 di prima classe e i restanti di seconda.
Pochi minuti dopo, appena oltre il ponte sul fiume Po in località Abate di San Sebastiano da Po, avvenne la sciagura: l’automotrice si scontrò frontalmente con un convoglio, trainato da una locomotiva a vapore FS 640, costruita fra il 1907 e il 1909 dalla Schwartzkopff di Berlino e composto da vetture vuote, proveniente dalla stazione di Montiglio. L’urto fu impressionante e ad avere la peggio fu la littorina, che aveva una massa a vuoto di 32 tonnellate a fronte delle oltre 50 tonnellate della FS 640.
Una littorina ALn 668 in servizio sulla tratta Chivasso-Asti
La scena dello scontro frontale
Per effetto dello scontro, la locomotiva si impennò, si sganciò dalle vetture trainate e cadde dal terrapieno della massicciata ferroviaria, in quel punto rialzato di circa 10 metri rispetto alla sede stradale, rimanendo in posizione verticale quasi intatta. La littorina, con il frontale arretrato di diversi metri a causa della violenza dell’urto, si rovesciò su un fianco e rotolò giù dal ripido pendio: «I primi allarmi sono stati dati da alcuni automobilisti che stavano percorrendo la strada provinciale che passa vicino al luogo della sciagura. È stata subito avvertita la stazione di Chivasso, da dove sono partiti alcuni ferrovieri, i vigili del fuoco, carabinieri, agenti della Stradale, ambulanze dell’ospedale civile. Sono così incominciate le febbrili opere di soccorso» (La Stampa, 10 aprile 1966, p. 1).
Morirono cinque persone che viaggiavano sulla littorina: il capotreno Bruno Serra, il macchinista Bruno Montaldo, due passeggeri, Rinalda Perotto, assuntrice di uno dei passaggi a livello della linea, e Paolo de Notariis, ferroviere in servizio a Saint Vincent, che erano seduti nei posti collocati in testa, e Giovanni Montaldo, di soli dieci anni, figlio del macchinista. Una coppia residente a Bolzano, seduta in coda, se la cavò con qualche ferita. Rimasero illesi i quattro ferrovieri in servizio sul convoglio.
All’origine della sciagura vi fu l’errore umano. Il macchinista Elio Mossino era alla guida del convoglio che «avrebbe dovuto fermarsi alla stazione di San Sebastiano. Fermata obbligatoria: ci sia o no il segnale rosso. Comunque, ci dicono che il segnale c’era: una lanterna posta ad un metro da terra, di fianco alle rotaie. Ma il macchinista […] – forse distratto – non si è accorto né della luce né della stazioncina» (La Stampa, 12 aprile 1966, p. 5).
Subito dopo l’incidente, si diede alla fuga: «Si è subito cercato il macchinista […]: non c’era. Scappato. Vinto dall’orrore e dal panico è corso per i campi senza una meta, poi si è trovato sulla “Nazionale”, ha fermato un’auto e ha avuto un passaggio per Asti. Aveva deciso di costituirsi quando gli agenti della polizia ferroviaria sono venuti a prenderlo» (La Stampa, 12 aprile 1966, cit.).
Fu arrestato alle tre di notte ad Asti, mentre rincasava: «Quando lo hanno portato in prigione – alle Nuove di Torino – ha detto: “Meglio se fossi morto anch’io in quello scontro”» (La Stampa, 12 aprile 1966, cit.).
Al termine dell’istruttoria, l’autorità giudiziaria formulò i capi d’accusa di disastro ferroviario colposo, omicidio colposo plurimo e lesioni per il macchinista del convoglio Elio Mossino, con l’aggravante della fuga, e di concorso nel disastro per l’aiuto macchinista Mirco Dubbini, seppure con responsabilità attenuata dato che aveva appena terminato la scuola ferrovieri ed era in servizio solo dal 21 marzo, e per il capotreno, Mario Illengo, con responsabilità accessoria in quanto era suo compito precipuo quello di vigilare sul buon andamento della marcia e di intervenire con il freno di emergenza al verificarsi di situazioni di pericolo.
«L’inchiesta compiuta dalle autorità ha chiarito le fasi della sciagura. Il segnale di blocco (una lampada rossa) regolarmente acceso nella stazione di San Sebastiano Po dall’assuntore […] non è stato visto dai ferrovieri che viaggiavano sul convoglio proveniente da Montiglio e diretto a Chivasso. […] Vano il tentativo dell’assuntore […] che tentò di bloccare il treno al casello 46, distante 1250 metri da San Sebastiano: la concitata telefonata, tramite Asti, giunse a destinazione quando il treno era già passato e lo scontro inevitabile» (La Stampa, 14 aprile 1966, p. 17).
L’assuntore della stazione di San Sebastiano da Po raccontò: «Ho visto che il treno proseguiva e ho urlato, ho preso la lanterna e l’ho agitata, sperando che qualcuno si voltasse». Egli si mise in collegamento telefonico con il dirigente del movimento della stazione di Asti, che tentò di chiamare al telefono i passaggi a livello successivi rispetto alla stazione di San Sebastiano da Po, con la speranza di poter fermare il convoglio: «Dal primo passaggio a livello – al km. 46,130 – gli hanno risposto: “È passato proprio in questo momento”. Al passaggio a livello successivo – km. 48,545 – c’era l’assuntrice […]. Il Ponzone stava gridandole al telefono: “Lo fermi per carità…” quando ha sentito un alto fragore e l’urlo della donna. Erano le 22.05» (La Stampa, 17 aprile 1966, p. 2).
Epilogo
Il processo ebbe inizio il 22 dicembre 1966 presso il Tribunale di Torino. Al termine del procedimento, il macchinista Elio Mossino e il capotreno Mario Illengo furono condannati a un anno e sei mesi di reclusione, l’aiuto macchinista Mirco Dubbini e il frenatore Sergio Goria a un anno e un mese.
Bibliografia
Aldo Riccardi, Binari tra risaie e Monferrato, Firenze 2019.
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