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Pagine di storia
31 Agosto 2024 - 17:48
Giuseppe Naretto all'opera
Nostro padre che impugna la tavolozza davanti ad una tela è un’immagine essenziale del nostro patrimonio di ricordi, sopravvissuto nel tempo fin dai giorni dell’infanzia; e i tubetti dei colori, la forma strana delle spatole, l’odore di acquaragia, le passeggiate con lui all’Orco o in campagna in cerca di ispirazione; il privilegio di lavargli i pennelli, il disagio nel posare per un ritratto, mai abbastanza immobili – ma anche l’orgoglio di fargli da modelli (una di noi, scolara di terza elementare, mentre gironzola in mezzo alla gente all’inaugurazione della prima personale al Circolo aziendale Valle di Susa, il 30 settembre 1945, sente due donne dire davanti ad un ritratto: «Costa a sarà una dij soe cite, Questa sarà una delle sue bambine», si volta e dice: «E son mi! Sono io!», poi scappa via correndo).
La famiglia Naretto riunita attorno al tavolo in un giorno d'estate (metà anni '50). Da sinistra: il padre Giuseppe, i figli Piergiorgio, Alberto, Anna, Quinta, Michele, Carla, Guido, Sandro, Domenica e, in primo piano, la moglie Angela e Gabriella.
Quando però, dopo la sua morte, in occasione di una mostra commemorativa abbiamo provato a ricostruire il racconto della sua lunga attività, abbiamo scoperto con dolore che esso era ormai scavato da vuoti profondi – che erano scomparsi con lui tanti ricordi che credevamo di possedere.
Abbiamo ugualmente cercato di mettere insieme qualcosa di ciò che siamo riusciti a ritrovare: testimonianze scritte da nostro padre o da altri, manoscritte o stampate, qualche episodio alternato a riflessioni nostre, cui siamo riusciti a dare consistenza. Anche se parliamo di lui come pittore, non vogliamo formulare valutazioni critiche, ma solo fornire qualche notizia su questa manifestazione primaria della sua umanità, che ci ha toccati assai profondamente, forse proprio a causa della sua intensa vitalità.
L’infanzia e gli studi.
Giuseppe Naretto è nato il 9 febbraio 1898 a San Giorgio, dove nostro nonno, sellaio, aveva trasferito per qualche tempo la sua bottega; ma, per quanto ne sappiamo, la sua infanzia è trascorsa in gran parte a Rivarolo, e qui egli ha frequentato le scuole elementari. Appartiene alla nostra preistoria il racconto del sorgere della sua «vocazione»; ma un po’ ci soccorrono il racconto dei suoi ricordi e le sue risposte scritte.
«I miei ricordi d’infanzia, lucidi e precisi, risalgono alla terza elementare, quando mi estasiavo davanti alle casette gialle con i tetti rossi e le persiane verdi che il mio maestro disegnava alla lavagna con i gessi colorati; oppure quando mi fermavo a guardare il pittore Silvestri mentre dipingeva le cuoche, che lavavano nel ruscello le pentole, e il paesaggio intorno; oppure più tardi, in quinta elementare: mi avevano regalato un tubetto rosso di colore all’acquerello e mi rivedo a disegnare una bambina con il fazzoletto rosso in testa e un grembiulino a puntini rossi. Più tardi, in collegio, rinunciavo alla passeggiata e alla ricreazione perché mi concedevano di andare a vedere il pittore Ponchia che dipingeva le scene per il teatro, e lui mi dava un pennellone intinto nel blu e impiastricciavo i cieli dei fondali».
Dopo gli studi ginnasiali a Ivrea e un breve periodo di lavoro al municipio di Rivarolo, due anni di guerra sul Carso e in Trentino dal 1917 al 1918; nel dopoguerra, l’impiego dapprima alla Banca Canavesana e poi alla Banca Popolare di Novara, dove lavorerà dal 1929 fino al 1958, l’anno della pensione, senza mai rinunciare alla speranza di poterla abbandonare per dedicarsi alla pittura in modo esclusivo. Cade probabilmente all’inizio degli anni Venti l’incontro con il pittore Codognato, da cui impara i primi segreti del mestiere.
Ma qui bisogna aprire una parentesi sul significato che ebbero per nostro padre l’incontro e il rapporto con altri pittori, più esperti o più affermati di lui.
I maestri e i contatti con gli altri pittori.
Si può dire che il sogno di un maestro abbia accompagnato tutta la sua vita di pittore. Nostra madre ricordava di avergli sentito dire a 85 anni: «Sapessi di trovare un maestro che mi insegna veramente la figura, andrei a lezione ancora adesso». C’è una stretta relazione tra questo bisogno, mai appagato, e l’insoddisfazione per i risultati raggiunti, anche quando erano ormai gli altri a cercare lui come maestro: al carattere in buona parte autodidattico della sua formazione egli tendeva infatti ad attribuire la responsabilità dei limiti che si riconosceva come artista. «Maestro» voleva perciò dire per lui qualcuno disposto a lasciarsi vedere al lavoro con la tavolozza in mano, a trasmettergli intera la sapienza artigianale su cui poggia il mestiere di pittore; ed invece i maestri via via incontrati – Codognato, Gays, Valinotti, Boggio, Emanuel, Arduino – sembra preferissero offrire un’assistenza amichevole, fatta di consigli e suggerimenti, a questo anomalo «pittore della domenica», che prendeva le cose troppo sul serio per poter essere classificato come un dilettante, piuttosto che addossarsi per intero il peso di dirigere il suo apprendistato.
Il primo insegnamento sistematico lo ricevette iscrivendosi nel 1920 al Cours A B C de dessin di Parigi: era forse il primo corso del genere per corrispondenza, che inviava periodicamente agli allievi le lezioni in successione graduale, insieme con i compiti corretti. Il giudizio degli insegnanti francesi sui risultati ottenuti da nostro padre possiamo ricavarlo dalla pubblicazione di tre suoi disegni sul fascicolo che la ABC fece stampare per annunciare l’apertura della nuova sede di Torino, intorno al 1930.
Per correr miglior acqua.
Nell’anno successivo al matrimonio, alla fine del 1927, nostro padre cominciò a frequentare a Torino lo studio del pittore Domenico Valinotti: prendeva il treno per andare da lui la domenica mattina, portandogli a giudicare i «compiti»della settimana. Valinotti lo aveva fatto ricominciare da principio, rinunciando temporaneamente ai colori per approfondire la conoscenza del disegno e del chiaroscuro: gli aveva consentito soltanto l’uso del carboncino e consigliato la carta che si usava allora per avvolgere il pane, per non sprecare quella da disegno. I soggetti erano casseruole, pentole, scodelle, candele. Le ore di studio erano quelle della sera, in un alloggio che d’inverno diventava troppo piccolo per contenere, nell’unica stanza riscaldata, lui che disegnava, nostra mamma che preparava la cena e i primi di noi che imparavano a camminare e minacciavano, muovendosi, la fissità del cavalletto e dei modelli sistemati sul tavolo o sulle sedie. La vita era meno difficile nei quindici giorni di ferie annuali, quando era possibile andare giti per l’Orco, o nelle sere d’estate, quando la luce permetteva di dipingere fino a tardi i vasi di geranio sul balcone. Il risultato di questo periodo di studio e di attività è riflesso in alcuni quadri a olio di quegli anni, dipinti su assicelle di legno compensato di formato variabile, spesso su tutte e due le facce. Due cataloghi della Società Amici dell’arte di Torino documentano la partecipazione alle prime mostre collettive nel palazzo della Promotrice al Valentino nel 1931 e a palazzo Lascaris nel 1934.
Negli anni immediatamente successivi, il suo tempo libero si riduce, per la sistemazione nella nuova casa in cui la nostra famiglia si trasferisce. In compenso, dispone finalmente di uno studio; su una parete in alto ha dipinto stilizzata una navicella sopra le onde con la scritta Per correr miglior acqua: emistichio iniziale del Purgatorio di Dante che esprime molto bene che cosa significhi nella sua vita la pittura, dopo una giornata trascorsa in ufficio.
Le prime personali.
Agli anni della Seconda guerra mondiale risale l’incontro con i pittori Emanuel Celanza e Nicola Arduino, sfollati tutt’e due a San Ponso per sfuggire ai bombardamenti inglesi su Torino. Dal secondo soprattutto ricevette lezioni, come al solito la domenica mattina, nel periodo dal 1943 al 1945: si portava dietro sulla canna della bicicletta una di noi bambine per giocare con la figlia di Arduino. (Nostra madre ricorda il costo di queste lezioni: 20 lire, lo stesso prezzo dell’arrosto che preparava per il pranzo della domenica).
Arduino era stato allievo di Giacomo Grosso, era un buon ritrattista e dipingeva soprattutto affreschi nelle chiese: dalle sue lezioni (ancora una volta bisognava ripartire dall’inizio) nostro padre ricavò non soltanto un affinamento delle sue conoscenze di tecnica pittorica, ma anche una forte carica di entusiasmo e di fiducia nelle proprie forze, che lo persuase a tentare la prima personale nel settembre-ottobre 1945, a guerra appena finita, nel Salone del Circolo aziendale del cotonificio Valle di Susa di Rivarolo (ex Dopolavoro). La mostra ebbe successo e forse gli fece rimpiangere ancora più amaramente di non poter dedicare alla pittura tutta la sua giornata. Abbiamo trovato, come testimonianza di questo avvenimento, qualche segnalazione su giornali locali, ma soprattutto – documento di una lontananza nel tempo che rende le cose difficili da credersi oggi – il cartello con l’elenco dei quadri esposti e il loro prezzo, battuto a macchina su un foglio di carta vergata incollato su cartone, unico catalogo della mostra. I quadri erano 85, quelli venduti 17, con un ricavo di 94.200 lire, da cui vanno detratte circa 44.200 lire per spese (in cornici, soprattutto).
Di altre personali negli anni prima del 1950 – a Cuorgné per invito dell’ANPI nel 1946, a Favria nella sede del collegio Bertano, nel 1947 a Groscavallo, dopo un periodo di ferie trascorse in montagna all’inizio di agosto – non troviamo nessuna traccia su cataloghi, manifesti o giornali.
A questo periodo risale la maggior parte dei suoi ritratti, dovuti forse all’influenza di Arduino. Nostro nonno e una nostra sorella sono stati i suoi modelli preferiti per almeno una decina di quadri ciascuno; posare non sembrava essere per loro due la sofferenza che era per la maggior parte di noi, privati anche del diritto di richiedere la somiglianza del dipinto con la nostra faccia: continue preghiere di non muoversi, e quanto più pressante era l’invito tanto più si sentiva voglia di grattarsi, di cambiare posizione, oppure gli occhi si chiudevano per il sonno.
Appartiene agli anni Cinquanta l’attività come insegnante di disegno geometrico ai corsi professionali che si tenevano presso la SALP: più di un rivarolese che è stato suo allievo ci parla a volte di lui in modo che a noi riesce commovente, perché dominato soprattutto dal ricordo della sua umanità. È una notizia che può sembrare estranea all’argomento di cui stiamo parlando, ma forse non è assurdo pensare che esista un legame fra le costruzioni geometriche e prospettiche e la composizione dei suoi quadri, nei quali il rapporto fra le masse era sempre studiato con grande cura.
A partire dal 1953 però, iniziano anche gli anni della sua crisi più dolorosa. In seguito ad una caduta dalla bicicletta, comincia a lamentare i primi disturbi all’occhio destro, che si aggraveranno progressivamente fino a renderglielo quasi del tutto inservibile. Al senso della propria integrità fisica compromessa si associa lo scoramento: ormai ha passato i cinquant’anni e dispera di poter realizzare i suoi progetti artistici, in particolare composizioni di figure.
Raggiunta l’età della pensione, la possibilità di disporre finalmente di tutte le sue ore potrebbe restituirgli una nuova carica di vitalità. Ma, appunto, è scontento di quello che ha fatto, e si persuade di dover riprendere ancora una volta dall’inizio lo studio della pittura: per questo motivo nel 1959 si iscrive col nome di uno di noi ad un corso di pittura per corrispondenza, Accademia. Ha la fortuna di imbattersi in un insegnante, un illustratore assai noto, il quale si accorge subito di aver a che fare con un allievo sorprendentemente esperto per l’età che denuncia, e gli dedica molta attenzione – difficile dire se trasmettendogli più sapienza tecnica o fiducia nelle proprie forze.
Un artigiano laborioso.
Comincia così l’ultimo periodo della sua vita di pittore, forse il più felice, certamente il più produttivo e il meno avaro di riconoscimenti pubblici. Il suo studio è ormai rivolto soprattutto al paesaggio, alla natura morta, ai fiori; le tecniche preferite sono l’olio, il pastello, il carboncino. A qualcuno di noi sembra essere stata un impoverimento la rinuncia al ritratto – che però non è totale: a parte gli autoritratti di cui abbiamo detto, ora sceglie come modelli i nostri figli bambini.
Nei quadri di questi anni si potrebbe dire che esplode il suo amore per la natura, come amore per la vita stessa e approfondimento affettuoso di visioni familiari. L’attenzione è concentrata su immagini conosciute, ma cariche di vitalità, senza preoccuparsi di percorrere strade percorse più volte. Le sue giornate per circa trent’anni, salvo brevi periodi di viaggio e visite a mostre, diventano quelle di un artigiano laborioso che apre la sua bottega al mattino e lavora finché c’è luce del sole: anche negli ultimissimi anni, se non riesce a dipingere almeno qualche ora, considera sprecata la propria giornata. Dipingere sembra diventata una necessità fisica, come nutrirsi, a dispetto della vista che si attenua sempre più.
Gli ultimi anni.
Dal 1965 fino al 1984 espone, oltre che in alcune collettive, in numerose mostre personali. Parlare di queste vuol dire per noi ricordarlo alle inaugurazioni, soprattutto alle ultime, fragile e schivo al centro della scena, lusingato per l’attenzione che gli veniva concessa, ma al tempo stesso emozionato, in attesa delle reazioni del pubblico; disponibile verso chi gli chiedeva spiegazioni, soprattutto se si trattava di bambini.
Le due ultime personali – del 20 settembre - 5 ottobre, Omaggio al pittore, nel palazzo comunale di Rivarolo e I pastelli di G. Naretto nella biblioteca comunale del 5-28 ottobre 1980 – sono state certamente quelle che gli hanno dato la sensazione di non aver lavorato per tanti anni inutilmente, sia per l’invito che proveniva dal professor Besso e dal sindaco Rostagno (in veste non tanto di amici quanto di autorità pubbliche).
Sia per la grande partecipazione della gente, che ha sentito spesso il bisogno di lasciare la traccia scritta della sua approvazione. I due quaderni, con le frasi scritte anche da bambini e gente semplice, con grafia a volte incerta, sono stati un riconoscimento cui nostro padre è stato molto sensibile.
Una frase che lo ha commosso particolarmente è stata quella di una visitatrice con firma quasi indecifrabile: «È la prima volta che esco da una mostra con una sensazione di pace e di serenità anziché di angoscia. Spero non sia l’ultima. Grazie».
Può sembrare strano che proprio gli anni Ottanta, durante i quali si è sempre più aggravata la sua debolezza visiva, siano stati i più produttivi, almeno dal punto di vista della quantità. La pittura di paesaggi dal vero era diventata sempre più difficoltosa, ed egli era costretto a sostituirla con il lavoro in studio, usando come modelli fotografie e, quando anch’esse sono diventate troppo difficili da decifrare, quadri dipinti in passato (soltanto i fiori, che si collocava davanti a pochi decimetri di distanza, continuavano ad essere rappresentati dal vero): sono dapprima piccoli quadri ad olio, poi a partire dal 1987 esclusivamente pastelli.
Gli ultimi pastelli sono del novembre 1989: ha rinunciato ormai anche ad uscire di casa e non può neppure partecipare all’inaugurazione della mostra di nostra cugina Maria Peila, che ha raccolto da lui la passione per la pittura ed ha voluto dedicargli i suoi primi pastelli esposti alla biblioteca di Rivarolo. Poi la malattia lo costringe a letto quasi ininterrottamente fino al 20 maggio 1990, che è il giorno in cui muore. Il giorno del suo ultimo compleanno riesce ancora ad abbozzare un quadretto di fiori; la gioia per aver potuto trionfare della sua fragilità gli fa scrivere come data, dopo 9 febbraio, non 90 (l’anno che sta vivendo), ma 92, gli anni che ha appena compiuto.
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