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Qualcosa di sinistra

Sarà la prima, ma non l’ultima

Kamala Harris

Kamala Harris

Commentando le elezioni americane che incoronarono per la seconda volta presidente Barack Obama si scrisse che le presidenziali del 2012 sarebbero state ricordate per tre buone ragioni, senza le quali mr. President avrebbe faticato a vincere. Primo, una storica vittoria femminile al Senato: le senatrici passarono da diciassette a ventitré (oggi le donne sono circa un quarto dei parlamentari statunitensi).

Secondo, dal New Hampshire arrivò al Congresso una delegazione di sole donne. Terzo motivo, il voto massiccio dell’elettorato femminile nei confronti di Obama. Infatti, fu rieletto con il consenso del 55 per cento delle americane. 

Barack Obama aveva intuito l’importanza di concentrare la sua campagna elettorale sui temi sociali e offerto alle donne americane validi punti di riferimento in politica, mettendo in difficoltà i Repubblicani su temi molto delicati come l’aborto e la parità di salario tra uomini e donne. 

Le elezioni del 2012 vanno ricordate per altri due primati: una donna gravemente menomata nel conflitto in Iraq è stata la prima veterana di guerra a sedersi nel seggio riservato all’Illinois. Per la prima volta, inoltre, una donna dichiaratamente gay fu eletta al Senato: per la campagna elettorale, lei e il candidato repubblicano rastrellarono 65 milioni di dollari. 

Per stare alla raccolta fondi di queste presidenziali, le cronache ci dicono che, in un sol giorno, la candidata Kamala Harris ha raccolto 60 milioni di dollari e 40 mila nuovi sostenitori hanno aderito alla campagna «win with black women» (vincere con le donne nere), raccogliendo, in tre ore un milione e mezzo di dollari. 

Così come per Barak Obama e Joe Biden, le elettrici sono un blocco particolarmente motivato, anche per le recenti decisioni della Corte Suprema trumpiana in tema di aborto; certo la candidatura di una donna, figlia di immigrati, appare quasi una provocazione nei confronti di quell’America suprematista, razzista e – diciamolo pure – misogina che Trump intende rappresentare.  Nel 2016, la sessantottenne Ilary Clinton, prima candidata donna alla presidenza degli Stati Uniti, sostenne che, con la sua candidatura, si fosse rotto il tetto di cristallo. «Posso essere la prima presidente donna – aveva aggiunto – poi ce ne saranno altre».

obama e renzi

Obama con Matteo Renzi. Una foto del 2014

Come sappiamo non fu davvero la prima, ma Kamala Harris potrebbe farcela là dove la Clinton ha fallito, grazie al sostegno di un partito a «trazione femminile», rappresentato dalla ex speaker della Camera e da diverse altre democratiche «di peso» come Elizabeth Warren, la senatrice che, nel 2012, si riprese il seggio del Massachusetts che era stato dei Kennedy, togliendolo ai repubblicani. 

Certo, la Harris, per quanto progressista, non ha l’agenda politica del senatore socialista Bernie Sanders e nemmeno della Warren, né possiamo sperare in una svolta nella politica internazionale.  «We won’t go back!» (non torniamo indietro) è, per ora, il mantra democratico, in risposta a quella che è stata definita la «restaurazione bianca».

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