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Gioventù spezzata: suicida a 21 anni in cella

La storia di Giacomo, tra comunità e istituti penitenziari

Gioventù spezzata: suicida a 21 anni in cella

In carcere a 21 anni, l'unico posto in cui non sarebbe mai dovuto stare. Giacomo era rinchiuso tra le mura di San Vittore, a Milano, quando si è tolto la vita. Soffriva di un disturbo borderline di personalità, una condizione psichica ritenuta incompatibile con il carcere.

Nonostante questo, Giacomo è morto in un istituto penitenziario il 31 maggio 2022, dove si trovava dopo l'arresto per un piccolo furto. Su proposta dell'avvocato, con l'appoggio dei genitori, il 21enne aveva ottenuto la disposizione per essere trasferito in una Rems, una residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza che, dal 2014, sostituiscono gli ospedali psichiatrici giudiziari. Anche dopo il via libera, però, Giacomo era ancora a San Vittore, in cui è rimasto per nove mesi.

A causa della mancanza di posti disponibili in questo tipo di strutture, Giacomo avrebbe dovuto essere curato in un luogo alternativo esterno, ma ciò non è successo.

Detenuto suicida a Novara, 44esimo caso del 2024

 "Un altro suicidio nelle carceri italiane. Siamo a quota 44. E' successo quedta mattina intorno alle 11.30 nella casa circondariale di Novara. Gli agenti della polizia penitenziaria hanno trovato un detenuto di appena 20 anni morto impiccato nella sua cella. Subito è scattato l'allarme, ma per il giovane, un algerino nato nel 2004, ormai non c'era più nulla da fare. Ha utilizzato un cappio rudimentale".

Lo riferisce il segretario generale Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria) Leo Beneduci: "E' il 44° suicida in carcere in meno di sei mesi. E' un dato tragico e significativo. Dato inaccettabile, come è inaccettabile la situazione che stanno vivendo i detenuti e i poliziotti penitenziari nelle carceri italiane. Il governo prenda finalmente atto della incapacità profonda degli attuali vertici della amministrazione a gestire questo tipo di emergenza. E prenda atto che ci vogliono misure speciali e straordinarie per fare in modo che le carceri tornino a essere quello che la Costituzione dice: ovvero presidi di legalità e sicurezza. L'amministrazione penitenziaria non può essere gestita da chi fino a ieri ha fatto il magistrato . Non può essere gestita attraverso le prebende date ai magistrati a fine carriera. Per l'amministrazione penitenziaria servono manager in grado di organizzare. E finora i magistrati a fine carriera hanno dimostrato di non essere in grado di gestire la situazione".

A due anni dalla sua morte, per sua madre Stefania riavvolgere il nastro è doloroso ma allo stesso tempo necessario. "L'aspetto più drammatico - ha raccontato - è la scarsità di personale qualificato e la totale mancanza di ascolto, sia dentro che fuori dal carcere, che trasforma queste strutture in 'discariche sociali'."

La storia di Giacomo, in verità, comincia con l'intervento dei servizi sociali. Ancora minorenne, viene allontanato da casa a causa di una serie di disturbi comportamentali e inserito all'interno di alcune comunità. Per Stefania, questo ha portato all'apertura di una "voragine".

"Quando i servizi sociali gestivano le cose era un problema - ha spiegato -, perché si affidavano a 'protocolli standard' che non erano indicati in casi come quello di Giacomo".

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È proprio per la presunta scarsa esperienza e preparazione su come affrontare tali disturbi che, uscendo dall'ambiente comunitario, Giacomo viene risucchiato in un vortice di dipendenze tra alcol, droga e piccoli furti.

L'esperienza in carcere comincia nell'istituto penale per minori Beccaria di Milano che, secondo sua madre, si rivela 'positiva', portando il figlio a dimostrarsi propenso ad affrontare percorsi di cura. Gli arresti, però, non si sono fermati, portando Giacomo a precipitare nuovamente in una spirale di istituti penitenziari e comunità non idonee per curare il suo disturbo. Con il tempo la detenzione si è trasformata in un'esperienza di sofferenza.

"Giacomo aveva iniziato a farsi del male con gesti di autolesionismo, in qualche modo per alleviare il suo dolore, anche a causa delle pesanti dosi di benzodiazepine che gli venivano somministrate - racconta Stefania -. In più, nelle carceri vige questo meccanismo perverso per cui le famiglie vengono estromesse". Parlare con Giacomo a San Vittore, infatti, era diventato sempre più difficile, soprattutto per i pochi minuti che gli vengono concessi.

La lontananza, l'isolamento, l'assuefazione dai farmaci e la mancanza di supporto lo hanno portato a compiere quel gesto, qualche giorno dopo che, in una cella vicino alla sua, un suo coetaneo si era tolto la vita. "Noi abbiamo vissuto l'assenza delle istituzioni per 10 anni - ha detto Stefania in occasione della maratona oratoria davanti al palazzo di giustizia di Milano, la scorsa settimana -. Davanti a questo sistema mi continuo a chiedere perché le famiglie, che potrebbero fornire un minimo di risorse, ancora non vengono ascoltate".

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