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L'Unione fa la forza

Elezioni: un'illusione di vittoria o un dramma democratico? La verità nascosta dietro le percentuali!

Astensionismo alle Stelle: I Numeri Che Cambiano la Percezione dei Risultati

Elly schlein

Elly schlein

HA VINTO QUESTO, HA PERSO L’ALTRO. IN REALTÀ, ABBIAMO PERSO TUTTI...

A prima vista sono le percentuali che colpiscono. Da sempre. Queste ci dicono, scorrendo l’elenco dei partiti, che in Italia la destra va elettoralmente bene, il PD fa un balzo in avanti, i Cinquestelle retrocedono emorragicamente, il centro diviso di Calenda e Renzi fa un tonfo, Alleanza Verdi Sinistra ottiene un clamoroso e pregevole successo, Pace Terra Dignità di Santoro conferma le aspettative sondaggistiche e, oggettivamente, delude qualche aspettativa di troppo che, più che naturalmente, si era andata formando nelle ultime due settimane prima del voto.

Ma occhio alle percentuali! A volte dicono la verità ed altre volte mentono spudoratamente. Non è colpa loro, si tratta di rapporti numerici, di calcoli, di interazione di cifre che, pur essendo nude e crude, prendono pieghe diverse a seconda delle condizioni in cui il voto prende forma e poi si estrinseca nella partecipazione o non partecipazione alle urne.

Ed è proprio dal dato dell’astensionismo altissimo che tocca partire. Tocca letteralmente dare un po’ di numeri per poter comprendere meglio il tutto. Ad avere diritto di voto erano l’8 e il 9 giugno 49.552.399 cittadine e cittadini. Coloro che si sono recati ai seggi per assolvere questo diritto-dovere sono stati 23.244.590, pari al 49% del corpo elettorale. Questo significa un aumento in termini assoluti e in percentuale rispetto tanto alle europee del 2019 quando ad esprimersi erano stati 27.652.929 su una popolazione pressoché numericamente eguale a quella odierna.

Ciò significa che il balzo indietro della partecipazione corrisponde percentualmente a quasi sette punti in meno: dal 56% al 49%. Se per Francia e Germania potremmo parlare di farsa o tragedia, nel nostro Paese possiamo parlare di dramma democratico, di separazione sempre meno consensuale tra politica e cittadinanza, tra elettorato attivo e passivo, tra popolo ed istituzioni. Indubbiamente incide anche il tipo di votazione, per cui si potrà affermare – non senza ragione – che trattandosi di elezioni europee, queste sono meno sentite rispetto alle politiche.

Ed è pure vero che si votava in migliaia di comuni per il rinnovo dei consigli, così come in tutto il Piemonte per la nuova legislatura regionale. Quindi, di contro, si potrebbe asserire che una sorta di bilanciamento tra percezione negativa, spinta astensionista e più alta partecipazione là dove vi era da eleggere o rieleggere i sindaci esiste. Ma siamo nel campo del metafisico-politico-elettoralistico. Se stiamo ai dati, senza leggerli asetticamente, ma tenendo bene a mente il contesto in cui sono determinati in quanto tali, riusciremo a capire le dinamiche e i flussi.

In realtà il voto europeo ci consegna una Italia in cui l’effetto destra pare determinato nella sua avanzata grazie, quasi esclusivamente, all’aumento davvero importante del fattore astensionismo. E questo elemento ci dice di più del malessere sociale e delle mancate risposte politiche di quanto non ci dica il mezzo milione di preferenze date al generale Vannacci in una Lega che non riesce a fare il sorpasso su una Forza Italia che va oltre il suo fondatore e che recupera consensi. Il miracolo, da attribuire forse a futuro processo di beatificazione prima e santificazione, in realtà è piuttosto illusorio.

Il partito sempre berlusconianissimo retrocede in numeri assoluti di quarantatrémila voti, quindi sostanzialmente tiene rispetto alle politiche del 2022 ma, facendo la Lega di Salvini un risultato peggiore (quattrocentomila voti in meno), la deformazione ingannevole tra percentuali e voti si prende la scena e troneggia nell’immaginario collettivo. Giorgia Meloni passa dal 26% delle politiche settembrine che l’hanno promossa a Palazzo Chigi al 28,8% odierno. Sembra un grande balzo in avanti e, infatti, percentualmente lo è, ma in numeri assoluti pure lei perde: da 7.301.303 passa a 6.704.423.

Il PD di Elly Schlein consolida certamente la scelta più socialisteggiante della segretaria, rispetto al passato tecnocratico-renziano, e rincorre Fratelli d’Italia: dal 19% modesto del 2022 passa al 22,7% di oggi. Il salto in avanti è di circa duecentocinquatamila voti. Il secondo caso di corrispondenza tra aumento doppio, in percentuale e in assoluto, è quello di Alleanza Verdi Sinistra: qui riscontriamo ben mezzo milione di voti in più rispetto alle politiche ultime e l’exploit è innegabile. Paga la candidatura tanto di Ilaria Salis quanto quella di Mimmo Lucano e, certamente, la scelta di presentarsi sempre con il simbolo consolidato.

I Cinquestelle collassano. Dai 4.335.494 di voti (pari al 15,4%) delle politiche (per non parlare del 17,7% delle precedenti europee) si scende verticalmente a 2.323.021, senza riuscire neppure ad arrivare alla doppia cifra, fermandosi beffardamente al 9,99%. Come per i prezzi al supermercato, l’effetto psicologico è notevole ma, invece di indurre ad una sensazione positiva, lascia a Conte l’amaro in bocca di una cocente sconfitta.

Se Renzi e Calenda, divisi non a Berlino ma a Strasburgo, hanno l’amara sorpresa di non veder confermate le previsioni sondaggistiche che li davano oltre il 4% (almeno abbondantemente per quanto riguardava Stati Uniti d’Europa), Pace Terra Dignità, la lista pacifista di Santoro e La Valle, sostenuta organizzativamente e politicamente da Rifondazione Comunista, non va oltre il 2,2% e, al consueto spicchio di elettorato di sinistra di alternativa (che viaggia ormai da tempo delle trecento-quattrocentomila unità) si arricchisce di centomila consensi, in parte strappati al M5S, forse qualcuno all’astensionismo, ma perdendone certamente altrettanti verso il PD e, soprattutto, Alleanza Verdi Sinistra.

Premesso quindi che il “partito dell’astensionismo” è di gran lunga il primo partito di tutti i paesi che fanno parte dell’Unione Europea e che sono andati al voto tra il 6 e il 9 giugno, non possiamo nasconderci dietro ad alibi continentali per non vedere lo stato di crisi in cui versa la nostra società. L’aumento del disagio sociale, della povertà e della mancanza dei servizi elementari (scuola, sanità, infrastrutture, assistenze di prossimità) ha spinto quella parte di elettorato costretto alla sopravvivenza da parecchi anni di crisi multilivello (dalla Covid-19 fino all’economia di guerra) a scegliere l’opzione di destra come risposta alla disperazione.

Una risposta interclassista che, per l’appunto, salda il neo-sottoproletariato ad un ceto medio che si lega mani e piedi ad una neo-borghesia imprenditoriale che necessita di una stabilità che cerca nella legislazione veloce e nel presunto efficientismo statale il punto di svolta di una politica parlamentare vista come una palla al piede. La risposta premieristica meloniana va in questa esatta direzione: al mantenimento del proprio potere politico corrisponde la garanzia della tutela dei privilegi della classe padronale e finanziaria che nell’instabilità generale del continente in guerra scorge la possibilità di limitare le richieste sociali.

Lavoratrici e lavoratori, precari, disoccupati e pensionati, studenti e casalinghe, qualunque fragilità viene trattata alla stregua dell’esercito di riserva cui attingere per evitare richieste di avanzamento dei diritti del mondo del lavoro, del mondo salariato, dei più deboli e indifesi. Le politiche liberiste della Commissione europea, della “maggioranza Ursula“, sono la conseguenza di un appoggio tutt’altro che critico da parte dei Socialisti e Democratici di cui, per l’Italia, fa parte anche il PD.

Se a questo si aggiunge l’acquiescenza nei confronti dell’atlantismo dell’asse americano-franco-tedesco, è piuttosto evidente l’impossibilità di una conciliazione delle posizioni tra chi mette la pace, il disarmo e il passaggio ad una economia sociale come elementi primari per una fine della crisi continentale e globale e chi, invece, vede nella mitigazione di quelli che prova a far considerare solo degli “eccessi“, lo scopo della sua politica pseudo-riformista.

La necessità di una proposta politico-sociale-culturale che guardi alla pace come ad un progetto rivoluzionario almeno in questa particolare, storica fase di transizione dalle tragedie novecentesche a quelle del nuovo secolo (Gaza ovviamente, purtroppo, compresa) non è stata quindi una capricciosa velleità intellettualistica o giornalistica di chi voleva tentare una avventura. Più realisticamente ha posto il tema della guerra come il cuore di un problema disumano molto più ampio.

Mettere al centro dell’agire politico l’interesse comune e pubblico per riqualificare l’importanza della socialità, della condivisione dei beni, delle esperienze, delle culture, di tutti quegli interscambi che i rapporti di forza tra le economie dei vari continenti ci sbattono in faccia, mostrandoci la tanta povertà che regna nel mondo e la microbica ricchezza dell’egoismo occidentale. In questo senso, la ricerca della pace non è la ricerca di una mera “assenza di guerra“, ma la progettazione di un futuro in cui sia naturale per gli esseri umani vivere senza più massacrarsi a vicenda.

Senza più olocausti, genocidi, etnocidi. Porre questo tema all’ordine del giorno della politica italiana ed europea ha costretto al confronto con quella che è tutt’altro che una ideologizzante utopia romantica dei moderni sognatori di un mondo saturniano. Quanto un’idea è così naturalmente facile da comprendere e appare realistica in quanto trasferibile dal particolare all’universale, viene facilmente tacciata di essere al di fuori della realtà.

La delusione per il non raggiungimento del quorum da parte di Pace Terra Dignità passerà con i mesi. Ma il progetto deve poter resistere. Perché le premesse che lo hanno determinato non cessano con lo scrutinio dell’ultima urna elettorale. Anzi, proprio da lì ricominciano, perché l’Europa che non intende disarmarsi ci deve per forza di cose allarmare.

Il dialogo e il lavoro comune devono essere visti non come un tradimento ogni volta che puntano al loro ruolo di intermediazione e del tentativo di trovare punti di convergenza per far avanzare lotte progressiste, di pace e di sviluppo sociale. Dobbiamo smetterla di considerarci avversari per via delle vicende del passato. Dobbiamo semmai distinguere ciò che ci divide da ciò che ci può unire di volta in volta. Le alleanze non devono essere dei labirintici costrutti in cui non si trova più la via d’uscita. Devono essere spontaneismo e non opportunismo o ultima spiaggia della disperazione.

Mezzo milione di voti non sono pochi, anche se percentualmente possono apparire tali. Questa fiducia data alla colomba bianca con il ramoscello d’ulivo nel becco non svanisce immediatamente dopo il voto. La sua valorizzazione è il primo punto all’ordine del giorno per la costruzione di un grandissimo movimento di resistenza popolare contro la guerra, contro tutte le guerre.

Se non usciamo dall’economia di guerra, non usciamo dalla mortificazione sistemica dei diritti sociali e civili, di quelli umani, della logica liberista di una Unione Europea che sarà governata con maggiore asprezza verso i suoi cittadini più deboli. Il tracollo macroniano dovrebbe essere un campanello d’allarme per questi teorizzatori delle magnifiche sorti e progressive del liberismo a tutto tondo. Non lo sarà, perché l’interesse di classe premerà sulla pochezza delle classi dirigenti piegate agli ordini del mercato e dell’alta finanza.

A tutti coloro che hanno votato e creduto come il sottoscritto nella proposta di Pace Terra Dignità, oltre a ringraziarli, voglio semplicemente dire: Diamoci delle prospettive di breve termine. Puntiamo al disarmo europeo. Mettiamo insieme progetti realizzabili qui ed ora per costruire una affinità oltre l’elettività forzata delle tornate di voto, anche riprendendo il dialogo con quella parte politica che seppur con qualche ambiguità sul tema guerra la pensa come noi mi riferisco a Sinistra italiana.

Se Pace Terra Dignità saprà darsi questo obiettivo, verificando continuamente la sua aderenza alla realtà e alle pericolose circonvoluzioni che stanno avvenendo in tutti i paesi dell’Unione e in tanta parte del pianeta, allora potremo pensare di essere “riconoscibili” tanto da parte dell’elettorato quanto dai cittadini fuori dal momento elettorale stesso.

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