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La storia
09 Maggio 2023 - 10:22
Martina Marchiò
C'è chi, armata solo degli strumenti del suo mestiere, parte verso luoghi a distanza di chilometri per curare le ferite che le guerre e le malattie incidono sulla carne degli esseri umani. Martina Marchiò è un'infermiera, ha trentuno anni, ed è tra le professioniste e i professionisti che per lavoro si recano nei territori più difficili per curare queste ferite.
Rivarolese d'origine, ma vive a Torino, Martina ci tiene a precisare che "per molti mesi all'anno non ho una casa fissa". A dire il vero, per lei questa frase significa poco, perché "dopo i miei primi viaggi in Africa ho scoperto che mi sentivo a casa e che potevo vivere una vita fantastica anche lontano da casa mia. Non me lo aspettavo, perché credevo che avrei avuto una vita abbastanza routinaria".
Le sue prime esperienze nel continente africano risalgono al 2014, quando, subito dopo la laurea, Martina ha intrapreso il suo primo viaggio che l'ha portata in un piccolo ospedale vicino Nairobi. Quella, però, era un'esperienza di volontariato. Forse Martina non sapeva che presto quell'attività sarebbe diventata un vero e proprio lavoro.
Prima di laurearsi in Scienze infermieristiche, infatti, Medici Senza Frontiere aveva tenuto una conferenza all'università. "La cosa mi aveva smossa" racconta Martina. E così, dopo un'altra esperienza in Kenya nel 2016 con la Caritas, Martina ha iniziato a lavorare con continuità con Msf.
Nel corso di queste esperienze, Martina ha capito tante cose: "Ho conosciuto il Mal d'Africa e ho scoperto quanto fosse bello vivere in paesi molto diversi dal nostro, in cui potevo contaminarmi con le persone del luogo e vedere posti magnifici. Ma ho anche capito cosa significa operare in condizioni di conflitto o di emergenza sanitaria".
A chiederle in quanti paesi ha operato si ottiene una risposta eloquente: "Sono molti, dovrei contarli. Ho fatto tanta Africa, ad esempio sono stata in Kenya, Nigeria, Congo, Sud Sudan, Etiopia e, per ultimo, il Mozambico". E poi Grecia, Messico e Bangladesh.
Contesti, lo dicevamo, spesso ad alta tensione. "Bisogna essere preparati ed avere un buon livello di competenze ed esperienze fatte" dice l'infermiera. Lavorare in contesti difficili significa anche saper formare lo staff locale, sviluppando quindi anche competenze nella gestione e nella supervisione del personale.
"Sicuramente ci vuole flessibilità ed adattabilità - racconta l'infermiera -. Le condizioni igieniche non sono facili e spesso non lo sono neanche le condizioni di sicurezza. Per fare questo lavoro ci vuole molto sacrificio, anche se poi diventa una vera e propria passione".
Uno dei contesti più complicati in cui Martina ha operato con Medici Senza Frontiere è stato sicuramente l'Etiopia. Il paese è infatti segnato da tre anni a questa parte da un conflitto sanguinoso tra le forze governative e il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè, un'organizzazione indipendentista radicata nella regione omonima e di ideologia marxista.
"In quel contesto abbiamo veramente assistito agli effetti del conflitto in termini di malnutrizione, ma non solo: anche la guerra in Ucraina ha avuto effetti devastanti per tutto ciò che riguarda la disponibilità del grano" racconta la giovane canavesana. "In più, con un sistema sanitario che funziona poco tutto diventa più complicato".
Un altro scenario di estrema violenza è stato quello che ha visto Martina e le colleghe operare al confine tra Messico e Stati Uniti d'America. "Si trattava di una zona controllata dai cartelli della droga, e faceva veramente paura assistere alla forza dei narcos nell'esercizio del controllo dell'area. La loro presenza aveva effetti devastanti anche sui migranti, ai danni dei quali si verificavano rapimenti e violenze. In quel caso non eravamo in guerra, ma il contesto di sicurezza rimaneva complicatissimo".
Non è infrequente che chi opera in contesti del genere si relazioni con persone che portano con sé vissuti traumatici. Ciononostante, "la cosa che mi ha sempre colpito di più è stata la resilienza delle persone che ho incontrato". L'ultimo caso a Mozambico, nella provincia di Cabo Delgado, una missione da cui l'infermiera è tornata di recente.
Per approfondire leggi anche:Il periodo trascorso in Mozambico
"Si trattava - dice - di una zona fortemente colpita dagli estremisti islamici, e in quel contesto ho avuto modo di ascoltare molti racconti di diverse persone. Spesso avevano dei vissuti atroci a livello di violenza e di fuga, eppure avevano una forza d'animo e una capacità di voltare pagina che mi hanno colpito".
Tutte quelle donne fuggite dai loro villaggi coi figli avevano in comune una cosa: "Nei loro occhi c'era tanta speranza. Vedevo in loro la spinta ad andare avanti, come se dicessero 'ecco, io sono ancora viva e questa vita me la riprendo'". Eppure, Martina porta dentro di sé anche delle immagini cupe, che descrivono realtà nefaste segnate dalla violenza.
Come quella volta in cui operò al campo di Moria, in Grecia, prima che bruciasse. "Di quell'esperienza porto dentro di me un senso di costrizione al petto. Mi ricordo i volti e gli occhi dei bambini. Non ridevano più, come invece dovrebbe essere a quell'età".
Persone, luoghi, storie. Tutto questo andava raccontato. Martina ci ha pensato su e poi ha deciso: avrebbe cominciato a scrivere. Ieri sera a Rivarolo è stato presentato il suo ultimo libro, "Memorie dal campo di un'infermiera zen", con la prefazione del reporter Valerio Nicolosi, uno dei migliori cronisti di guerra che abbiamo in Italia. Ma non stanno soltanto lì i suoi racconti.
Stanno sui suoi canali social, che Martina aggiorna puntualmente, e sul suo sito, www.infermierazen.com. "La scrittura è molto terapeutica, e io avevo molta voglia di raccontare le mie esperienze" ci dice. D'altronde il patrimonio narrativo non manca affatto. E, si badi bene, non è solo fatto di storie difficili da digerire.
"Se c'è una cosa che mi sorprende spesso è la gratitudine con cui veniamo ricevuti e accolti. Non è qualcosa che capita spesso in Italia, e lo sento anche dal racconto di tanti colleghi" ci racconta l'infermiera. Certo, persistono delle diversità importanti: "Gli unici scontri che possono verificarsi sono quelli tra la medicina per come la pratichiamo noi e quella praticata dai guaritori locali".
Figure carismatiche che spesso, soprattutto nei villaggi africani, vengono riconosciuti come delle vere e proprie autorità in fatto di medicina tradizionale. "Tendiamo a collaborare con loro e li riconosciamo, cercando di formarli e di fare in modo che abbiano la capacità di riconoscere le patologie più severe".
Non c'è uno sguardo coloniale sulla medicina tradizionale. Qui non si tratta di "fare i bianchi che vanno a indottrinare", come dice Martina. Si tratta invece di fondere linguaggi diversi per raggiungere un obiettivo: curare la gente.
"Molte patologie vengono riconosciute come conseguenza della magia nera e sono molto difficili da affrontare insieme. Capita che il familiare del malato si renda conto dell'entità della malattia, ma capita anche se se lo prenda e se ne vada via". Ciononostante, "bisogna essere sempre rispettosi della cultura nella quale ci troviamo ad operare".
Lo dicevamo prima: l'ultima esperienza di Martina l'ha portata in Mozambico. "Questa missione mi ha segnato molto e mi ha stupito" ci racconta. La popolazione ha accolto lo staff di Msf a braccia aperte, e nonostante la presenza dei fondamentalisti islamici dal 2017 "la popolazione si è dimostrata aperta e fiduciosa nei nostri confronti".
Di quel paese Martina porta con sé i tramonti osservati a fine giornata, dopo un lungo turno di lavoro, e tutte le relazioni umane costruite sul territorio.
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