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Chivasso
18 Agosto 2024 - 10:50
teresina dei pacchi, l'arzilla
Due cabaret di dolci e tanti, tantissimi auguri a tutti gli anziani ricoverati, troppo spesso dimenticati, nelle case di riposo. Correva l’inverno del 2001, praticamente 20 anni fa.
Per la prima volta i chivassesi rivedono in fotografia, sul giornale LA VOCE, Teresina Massadro, la “Teresina dei pacchi”.
E di lì in avanti, puntuali come orologi a cucù, andammo a trovarla ad ogni Natale.
Con o senza il mitico Alberto Faraudello, il “Bertu”. L’unico a cui lei s’era veramente affezionata.
Teresina, classe di ferro 1921, ci ha lasciati il 21 marzo del 2011. Non c’è più. Volata via, diciamo in un’altra dimensione.
E fu quella una giornata di lutto per tutta Chivasso. Indubbiamente vuoto il letto che occupava al secondo piano, prima stanza a destra dell’infermeria Santo Spirito di Crescentino, in provincia di Vercelli.
Fuori da lì lo stesso frastuono della vita che correva, delle auto che sgommavano, del mercato e della gente. Dentro il silenzio e un’aria impregnata di ricordi, con i vecchietti appoggiati e aggrappati l’uno sull’altro, pronti ad affrontare una nuova giornata, davanti al televisore, davanti ad una minestra, davanti a qualcosa e a volte anche davanti a niente. D'altro canto che cosa si può fare dentro una casa di riposo o RSA, come le chiamano oggi?
Per Teresina decine, centinaia di giornate da riempire, trascinandosi di qua e di là. Da una stanza all’altra in attesa che qualcuno la andasse a trovare ma non ci andava mai nessuno.
Teresina con il Bertu
L’anno prima, il Bertu aveva portato alla Teresina un bel pacchetto di Pavesini. Orgoglioso della pensata come solo lui sapeva esserlo. Quando li vide Teresina si mise ad urlare in un piemontese “tondo tondo”. “Non li voglio. Vai via! La prossima volta portami i Nocciolini. Caro Bertu, mi sun ad Civass…”. E così fu.
Mai più senza nocciolini e senza pasticcini. Di anno in anno, di Natale in Natale. Con un copione sempre uguale eppure così diverso e appassionante da far venire la pelle d’oca al solo pensiero di che cosa sanno scatenare quei semplici e piccoli dolcetti di zucchero e nocciola. “Grazie che tutti gli anni vi ricordate di me. Salutatemi Piccoli e Bonfante…. Salutatemi il sindaco ed il prevosto”.
Capelli tirati a lucido, non ancora del tutto bianchi, legati con due fermagli. Dei giornali, dei sacchetti e della carta con i quali amava accartocciarsi dentro neanche più un lontano ricordo. Lì, le amiche, la chiamavano l’arzilla. Irriconoscibile fin dalla prima visita.
Teresina che legge solo il nostro giornale (“l’è un po’ pì ad Civass”). Teresina che finalmente sorride e si lascia fotografare a braccetto con tutti. E parlava. Porca miseria se parlava. Veloce com’era suo solito, anche quel Natale che il Bertu non potè venire. “Dov’è? Perchè non c’è? Mi aveva promesso che presto sarei ritornata nella mia città e invece sono ancora qui… Mi racconta solo frottole quello lì….”.
Bertu non c’era ma con noi c’erano, in un foglietto, tutti i saluti che avrebbe portato lui, abbracciandola, stringendosela al petto e facendo cadere giù dal viso qualche lacrimuccia. Gli auguri di Marcello, di Olga, di Giulia, di Tony della Fenice, di Pio, di Giancarlo, di Sandrin e del cosacco.
Teresina ascoltava, conteggiando i nomi uno a uno. Prima il pollice, poi l’indice e via fino al mignolo dell’altra mano, guai a dimenticarne uno, che con Bertu fanno dieci. Erano i suoi amici. Qualcuno era già anche morto, ma non si poteva dire. Ed erano tutti quelli che avevano trascorso con lei gli anni più belli, quando lei, giovane e bella, amava la vita ed era piena, anzi stracarica di soldi.
Il papà, commerciante, gestiva un’antica drogheria in via Torino, all’angolo con vicolo del Protone.
Frequentava la Chivasso bene, i Bo, i Cena, i Gribaudo di allora. Con loro, tutte le sere, immancabilmente, faceva gran festa, a casa sua. Scendeva al piano di sotto, raccoglieva cibi e bevande per tutti e poi rideva spensierata come una matta fino a notte fonda. Rideva sempre Teresina. Poi, un bel giorno, s’innamorò e sparì. Galeotto quel "fottuto" maresciallo della polizia stradale dall’adorabile accento romano. Bello e impossibile.
Aveva promesso a sè stessa di seguirlo sino alla morte e così fece. Lei insieme al padre. Vendettero tutto e si trasferirono nella Capitale. Fu l’inizio della fine. Ritornò a casa dopo qualche anno delusa e depressa.
Affittò due camere a Castagneto Po e incominciò a vivere un’esistenza difficile, fatta di litigate senza fine con tutto il mondo che la circondava. C’è addirittura chi racconta di una padellata del cuoco di una trattoria presso cui lei si recava spesso a mangiare.
Una padellata così forte da tramortirla e lasciarla a terra per qualche ora. Ma chissà se questa è una storia vera. Una delle tante legate come ad un cordone ombelicale a questa città un po’ pettegola e bigotta eppure capace di farsi amare.
Di sicuro Teresina continuò per qualche tempo a fare la vita che le piaceva fare, quella della Chivasso bene. I problemi cominciarono quando i soldi finirono.
Cominciò la sua terza lenta metamorfosi. A legarsi addosso i sacchetti di plastica come fossero veli e mantelli del gran galà di Carnevale. Ad inventarsi improbabili cappelli costruiti con tutti i quotidiani d’Italia. E poi spaghi, laccetti e lacciuoli. Borsoni di plastica su borsoni di plastica pieni di carta e di altri sacchetti, per mimare quell’esistenza passata a fare acquisti senza pensieri per la testa.
Ed era sempre indaffarata in qualche angolo della città. Entrava in Pasticceria, ordinava e prendeva senza pagare, con il sorriso e a volte l’imbarazzo di fronte ai forestieri della Signora Piccoli, sempre felice però di poterla ancora accontentare tutti i giorni. Un simbolo. Un’icona.
Teresina dei pacchi più di altri ha fatto di Chivasso la città che conosciamo, unica e irripetibile in quell’insieme che è di edifici ma anche di persone. Ripresa e immortalata in decine e decine di quadri, più di altri personaggi ricordati postumi, ha saputo ispirare pittori e artisti, giornalisti e tradizione orale.
Ai suoi funerali celebrati in Duomo accorsero in pochissimi. Prevedibile “fine corsa” di un personaggio singolare anche nei modi con cui, in tutte le sue diverse esistenze, ha evitato di dare confidenza e stringere amicizie.
La Teresina era fatta così e di più non avrebbe desiderato. Per qualche istante la rivediamo. Al mattino, prima di uscire da quella stanza ricavata nel seminterrato dell’edificio comunale, a fianco della vecchia stazione dei vigili del fuoco.
Con gli occhi fissi e il rossetto in mano da spalmare sulle guance per farsi bella e colorata. Poi piano pianino per le solite commissioni, passando davanti al duomo e ad un carro funebre ricoperto di fiori. “E’ morto il Gian” c’è qualcuno che sussurra. Teresina alza la testa, non la dondola, con garbo, senza dare nell’occhio, si gira di spalle e va per un altra strada. Solo un pensiero tra sè e sè, “E chi ca l'era...? Ca vaga a pieslu ‘ntl gnau”
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