La paura, la responsabilità e la speranza. Ma anche la solitudine e l’incertezza. Le strade vuote e le file ai supermercati, la resistenza dalle finestre con canti e applausi e gli striscioni con gli arcobaleni ottimisti sui balconi. Un anno fa l’Italia piombava in uno dei momenti più tragici dal Dopoguerra, scoprendo per la prima volta quel termine inglese, lockdown, che svuotò vite e città. L’immagine-simbolo di quei mesi resterà per sempre il triste corteo di camion dell’esercito col carico di bare lungo le strade di una buia e ferita Bergamo. Erano passati appena dieci giorni dall’annuncio dell’allora premier Giuseppe Conte del cosiddetto decreto #iorestoacasa. Era l’inizio del silenzio. ‘Fuori era primavera’, come ha sapientemente mostrato Gabriele Salvatores nell’omonimo documentario, e le vie della ‘chiassosa’ Italia si ritrovarono improvvisamente deserte. Nel silenzio nacquero e si scoprirono rumori che disegnavano un’altra geografia ed umanità: lo scrosciare delle fontane, i versi più netti dei gabbiani o di altri uccelli, e lo scivolare sull’asfalto delle tante biciclette dei riders che, con i ristoranti chiusi al pubblico, garantirono e ancora garantiscono un minimo di sussistenza a queste attività. I paesini sembravano abbandonati, le metropoli, invece, mostrarono tratti post-apocalittici consegnati ad un silenzio senza fine e privo di traccia umana se non le pattuglie delle forze dell’ordine o dell’esercito. La fauna, in alcuni casi, si riappropriò degli spazi ‘occupati’ dagli umani. E così non era raro che un orso scendesse in città o che oche e rane camminassero tranquillamente in fila indiana lungo quelle che una volta erano trafficatissime strade. “Andrà tutto bene”, si leggeva sui balconi dove al tramonto gli italiani si ritrovavano per lanciare un messaggio musicale di speranza. Prima l’Inno di Mameli, poi i brani più simbolici della musica del Paese. Le note di Ennio Morricone dalla chitarra di Jacopo, a piazza Navona a Roma, sono state il simbolo della resilienza musicale. Il Paese nell’ora più tragica si riscopre resistente, unito, solidale. C’è chi, per esempio, improvvisò servizi di volontariato per consegnare la spesa alle persone più anziane e più sole. Mai come al tempo del lockdown le città senza uomini scoprirono un volto umano. I ragazzi, banditi dalla scuola e impegnati nella didattica a distanza, si affidarono alla tecnologia per sopperire alla mancanza di contatto con gli amici. Si iniziarono a festeggiare i compleanni rigorosamente da remoto. E anche le lauree. Gli adulti scoprirono lo smart working. Si viveva e purtroppo si moriva da remoto. Perchè negli ospedali e nelle Rsa, sigillati a causa del contagio, tanti, troppi anziani sopportarono la malattia da soli e da soli morirono. Ma si andò avanti perchè si doveva. C’è chi organizzò anche estemporanei scambi tennistici da un balcone all’altro per mantenersi in allenamento. Chi si improvvisò pizzaiolo e fornaio, tanto che farina e lievito registrano il sold out, nei saloni e nelle camerette si attrezzarono estemporanee sale di allenamento, seguendo istruttori online o consigli di amici personal trainer. Uniche evasioni concesse: le passeggiate con il cane, qualche corsetta e passeggiate in bicicletta. Oggi, ad un anno da allora, l’Italia si trova ad affrontare nuove, e decisive, sfide. Il rischio di finire di nuovo in lockdown è più concreto che mai, complice l’estrema velocità di diffusione delle varianti, soprattutto tra i più giovani. Quel che è certo è che un’altra Pasqua, dopo Natale e Capodanno, passerà sotto restrizioni. L’immagine potente dell’Urbi et Orbi di Papa Francesco solo nell’immensa piazza San Pietro è ancora vivida nel ricordo degli italiani, così come quella del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che il 25 aprile rese omaggio al Milite ignoto in una deserta piazza Venezia. Un anno di resistenza. E la guerra non è ancora finita. Anche se ora è arrivato l’alleato decisivo: il vaccino.
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