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20 Settembre 2016 - 13:02
Quello che doveva essere un 'rapimento lampo' con immediato pagamento di un riscatto e rilascio degli ostaggi, non si è chiuso subito. E' quindi iniziata una fase delicatissima che può diventare pericolosa man mano che passa il tempo. E' una delle ipotesi all'esame di chi sta seguendo il caso dei due lavoratori italiani rapiti ieri a Ghat in Libia insieme ad un canadese.
La zona del sequestro è conosciuta dall'intelligence. Si tratta di un'area nella quale imperversano tribù tuareg e trafficanti di ogni tipo. Non mancano infiltrazioni jihadiste.
Ma proprio quella del gruppo criminale 'comune' sembra per ora la pista privilegiata per risalire agli autori del sequestro.
Come l'esperienza del precedente rapimento dei quattro operai della Bonatti in Libia insegna, tuttavia, il fatto non costituisce alcuna garanzia di una rapida risoluzione del caso.
L'Aise si è subito messo al lavoro con i suoi contatti locali per identificare i sequestratori e capire il tipo di richieste che partiranno. Coinvolta naturalmente anche l'azienda Conicos che impiegava i lavoratori e che ha uffici in Libia. Il rapimento è avvenuto ieri mattina, la Farnesina ha confermato in serata la notizia che era cominciata a circolare su alcuni media. Un lasso di tempo in cui sono stati fatti i massimi sforzi per risolvere velocemente il caso prima che diventasse pubblico. Ma senza risultati.
Ora l'obiettivo è capire con certezza chi ha in mano gli ostaggi e che tipo di contropartita vuole; quello che è da scongiurare è il passaggio di mano ad altri gruppi, di matrice jihadista, che potrebbero utilizzarli per rivendicazioni 'politiche' contro la presenza italiana e in Libia.
Doveva rientrare a breve in Italia Bruno Cacace, uno dei due italiani rapiti in Libia. I lavori della Con.I.Cos all'aeroporto di Ghat erano infatti terminati e il tecnico ne avrebbe approfittato per trascorrere alcuni mesi a Borgo San Dalmazzo, il paese in provincia di Cuneo di cui è originario. A renderlo noto è Alda, un'amica di famiglia, che questa mattina ha fatto visita all'anziana madre dell'italiano sequestrato.
"Ho voluto abbracciare Maria Margherita (che ha 86 anni, ndr) e dirle che le siamo vicini in questo difficile momento", spiega Alda. "Bruno doveva tornare a giorni - racconta - aveva finito il lavoro all'aeroporto e si doveva fermare qualche mese per poi fare ritorno in Libia e iniziare un altro lavoro".
"Siamo preoccupati per il nostro Bruno", dice Carlo Giraudo, amico di vecchia data dell'italiano rapito. "Da giovani giocavamo insieme a bocce, poi Bruno aveva avuto un infortunio sul lavoro e aveva dovuto smettere - afferma -. L'ho visto prima dell'estate dopo un po' di anni, era un po' preoccupato per la sua vita in Libia e mi diceva che doveva spostarsi sempre con la scorta".
Quello che doveva essere un 'rapimento lampo' con immediato pagamento di un riscatto e rilascio degli ostaggi, non si è chiuso subito. E' quindi iniziata una fase delicatissima che può diventare pericolosa man mano che passa il tempo. E' una delle ipotesi all'esame di chi sta seguendo il caso dei due lavoratori italiani rapiti ieri a Ghat in Libia insieme ad un canadese.
La zona del sequestro è conosciuta dall'intelligence. Si tratta di un'area nella quale imperversano tribù tuareg e trafficanti di ogni tipo. Non mancano infiltrazioni jihadiste.
Ma proprio quella del gruppo criminale 'comune' sembra per ora la pista privilegiata per risalire agli autori del sequestro.
Come l'esperienza del precedente rapimento dei quattro operai della Bonatti in Libia insegna, tuttavia, il fatto non costituisce alcuna garanzia di una rapida risoluzione del caso.
"Li hanno fermati in mezzo alla strada, nel deserto. Probabilmente hanno visto un'auto ferma e hanno rallentato pensando fosse in panne...". A raccontarlo è Pier Luca Racca, che per dieci anni ha lavorato in Libia, anche al cantiere dell'aeroporto di Ghat, e che conosce i due italiani rapiti con i quali ha anche lavorato. "Ho parlato con un nostro referente libico, è stato lui a raccontarmi queste cose", spiega l'uomo, che nel 2014 è tornato a vivere a Mondovì, dove ora gestisce una edicola.
"In Libia non era più come una volta - spiega - così dopo dieci anni abbiamo deciso di tornare a casa. Ho provato a chiamare alcuni colleghi che sono ancora là, ma il telefono neppure squilla...".
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