Già titolare, presso il Collège de France, della cattedra di Storia delle mentalità religiose nell’Occidente moderno, Jean Delumeau è deceduto lo scorso 13 gennaio all’età di novantasei anni. Non ha assistito, pertanto, alla diffusione dell’ennesima paura, quella del Coronavirus, che dilaga nel mondo. Ed è un peccato, perché Delumeau, uno fra i maggiori storici contemporanei, era uno specialista della paura, un sentimento molto ordinario e forse prevedibile, ma sempre nuovo. Il libro che lo rese famoso uscì nel 1978 in Francia. Tradotto quello stesso anno per il pubblico italiano, s’intitola «La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII). La città assediata» (Sei, Torino, 648 pagine). Di una chiarezza cristallina, le lezioni di Delumeau suscitavano un vivissimo interesse. Gli studenti si stupivano di come riuscisse a concluderle un secondo prima che l’orologio ne segnasse formalmente la fine.
Denise Poncher, Visione della morte, 1500 circa
Mentre le società del ventunesimo secolo sono sconvolte da catastrofi ambientali, terrorismo islamico, violenze urbane, precarietà lavorative e, ora, fortissimi rischi epidemiologici, che cosa c’insegna Jean Delumeau? Secondo l’illustre storico francese, cattolico critico verso la Chiesa, la paura è insita nella natura umana poiché tutto deriva dalla paura primaria, quella della morte. A differenza degli animali, l’uomo presagisce la propria morte. L’animale l’avverte quando si trova davanti a un pericolo immediato, come tutti noi, d’altronde. L’uomo, invece, è in grado di riflettere sulla durata della vita e ragionare sulla morte sin da quando ha consapevolezza di sé, cioè sin dall’infanzia. Nessun altro essere vivente possiede una coscienza così vivida e permanente della propria fine. «Se un’epidemia è alle porte della città, come nel caso delle pestilenze di un tempo, la vicinanza della morte può generare il panico», afferma Delumeau. «Più semplicemente, la vicinanza del pericolo riesce a generare la paura. In tal caso non si tratta di una considerazione sulla morte, ma di una consapevolezza acuta. Per questo motivo sorgono paure legate ai pericoli. E poiché questi ultimi cambiano, anche le paure mutano». Il guaio è che l’uomo necessita di vivere in condizioni di sicurezza quotidiana. Non molti decenni fa, prima che l’Unione Sovietica si dissolvesse, temeva una terza guerra mondiale. Oggi, a spaventarlo maggiormente sono le variazioni climatiche, le incognite dell’economia globalizzata, la disoccupazione, la solitudine, il dolore fisico, i flussi migratori senza controllo e, ovviamente, le epidemie come quella del Coronavirus, a cui la mondializzazione offre una cassa di risonanza senza precedenti. Le paure, specie quelle immediate e irriflessive, ci richiamano all’incertezza della condizione umana e ci fanno reagire a ogni forma d’intrusione e di estraneità. Paura dell’altro, dello straniero, del lontano e del vicino, delle differenze, delle novità, del contagio, dell’umano... È normale temere qualcosa che non si perviene a dominare, come il Coronavirus. Intervistato nel 2013 per il settimanale «Le Point», Jean Delumeau dichiarò: «In campagna, nel sedicesimo secolo, si trascorreva l’intera vita nella paura, isolati in casa, senza illuminazione, senza riscaldamento, sovente senza acqua potabile. A ogni istante si era esposti alla morte. È per questo che talune paure contemporanee mi sembrano eccessive. Noi utilizziamo questa parola a vanvera perché si vende bene. Ma bisogna rispettare le graduazioni: la paura non è il timore né l’angoscia. È una parola seria, non banalizziamola! Non abbiate paura!».
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