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Roma si ribella al rumore delle armi: due cortei, un solo grido di pace

C’era silenzio, a un certo punto. Un silenzio assordante, squarciato solo dal suono registrato delle bombe che cadono su Gaza.

Nel cuore di Roma, tra i sampietrini dei Fori Imperiali, centinaia di persone si sono lasciate cadere sull’asfalto. Immobili, distese, come fossero corpi senza vita. Un flash mob struggente, crudo, impossibile da ignorare. Un die-incollettivo per dire che anche qui, anche oggi, si può morire dentro al suono della guerra. Ed è in quel silenzio che Roma ha parlato più forte. Una città attraversata da due manifestazioni, due visioni, due modi diversi di urlare la stessa rabbia: basta armi, basta massacri, basta ipocrisie.

Sabato 21 giugno, la Capitale è stata attraversata da una mobilitazione duplice e parallela. Da un lato Stop Rearm Europe, la più grande e partecipata, partita da piazzale Ostiense e organizzata da Arci insieme a centinaia di sigle del mondo pacifista, associativo e sindacale. In corteo, migliaia di persone. Gli organizzatori parlano di 100mila, la Questura ridimensiona a 10mila. Ma i numeri, si sa, sono il primo campo di battaglia.

A fianco dei cittadini, sotto striscioni colorati e cartelli contro la NATO, hanno sfilato i partiti che si sono intestati – più o meno convintamente – la protesta: Alleanza Verdi e Sinistra, Rifondazione Comunista, e soprattutto il Movimento 5 Stelle, con Giuseppe Conte in prima fila a rivendicare il suo ruolo di pacifista istituzionale. Il Partito Democratico, come spesso accade, ha preferito non esporsi ufficialmente. Ma in piazza si sono visti Marco Tarquinio, Cecilia Strada e Arturo Scotto, volti noti della sinistra che prova ancora a credere che la pace non sia un vezzo, ma una scelta politica.

Quel momento, quel silenzio collettivo ai piedi del Colosseo, ha inciso come una ferita: una città che si ferma, si stende per terra e ascolta i bombardamenti, senza filtri, senza retorica. E alla fine un applauso, lungo e carico di dolore, ha spezzato quel rito civile. Nessun palco, nessuna passerella. Solo la potenza nuda del gesto. Una memoria viva, scolpita nell’asfalto.

Contemporaneamente, a qualche chilometro di distanza, un altro corteo prendeva forma. Più piccolo nei numeri, ma più netto nei contenuti. Disarmiamoli, partito da piazza Vittorio, è stato convocato dal sindacato Usb, dagli studenti palestinesi, dal movimento Cambiare Rotta e da Potere al Popolo. Qui non c’erano parlamentari, non c’erano sigle istituzionali. Qui la rabbia era più esplicita, più iconoclasta, più in rottura.

Sono state bruciate bandiere della NATO, dell’Unione Europea, di Israele. Un finto carro armato è stato dato alle fiamme, davanti agli occhi dei passanti, in un atto performativo che voleva gridare una verità spesso ignorata: la guerra è qui, nei trattati firmati, nei finanziamenti approvati, nelle armi che partono da porti italiani per raggiungere i fronti di morte. Gli organizzatori hanno parlato di 30mila presenze, anche qui la Questura riduce: 5mila.

I due cortei non si sono mai incrociati davvero. Non si sono parlati. Si sono guardati da lontano. Ma un segnale forte è arrivato dalla comunità palestinese, che ha scelto di partecipare a entrambe le piazze. Una decisione simbolica e politica al tempo stesso: non si può rinunciare a nessun appello di pace, quando si muore davvero.

Resta però una domanda aperta: può la sinistra permettersi di manifestare divisa contro una guerra? Può continuare a parlare con due voci, mentre ogni giorno in Palestina il sangue scorre e l’Europa firma nuovi contratti per i carri armati? C’è chi dice che la molteplicità è una ricchezza. Ma oggi, tra le strade di Roma, la molteplicità sembrava più una ferita ancora aperta. Una faglia che separa il desiderio di pace dalla coerenza politica necessaria per perseguirla.

Nel tardo pomeriggio, i due cortei sono giunti – separati – nell’area dei Fori Imperiali. Nessun abbraccio, nessuna sintesi. Ma entrambi hanno lasciato un segno. Roma ha mostrato che la voglia di reagire esiste ancora, che le piazze sanno parlare quando i palazzi tacciono. E anche se la divisione resta, anche se le bandiere si guardano in cagnesco, quello che resta è più forte.

Perché quando centinaia di persone si sdraiano sull’asfalto, nel cuore di una capitale europea, e ascoltano in silenzio il suono delle bombe, allora non c’è più simbolo che tenga. Quello è un grido. È un corpo politico. È una città che non accetta di voltarsi dall’altra parte. È l’unica vera forma di resistenza rimasta. E quel silenzio – quel silenzio assordante – continuerà a battere più forte di qualsiasi tamburo di guerra.

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