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08 Giugno 2025 - 23:58
Piazza di Città a Ivrea si è riempita di nuovo. Non per una moda, non per un anniversario, non per un flash mob. Ma per una fedeltà civile che non molla mai. È il 171° presidio per la pace, e ogni settimana diventa più chiaro che non si tratta solo di protestare. Si tratta di ricordare – a chi governa, a chi tace, a chi ha voltato la faccia – che il genocidio non è un dibattito. È un fatto. E che stare zitti è già una scelta.
Il primo a prendere la parola, sabato 7 giugno, davanti ad una cinquantina di persone (e 50 è davvero un bel numero) è stato Giorgio Franco. E lo ha fatto da subito come si dovrebbe: guardando in faccia il palazzo.
«Alziamo gli occhi verso il municipio. Non c’è la bandiera palestinese. Non c’è più nemmeno quella della pace. Avevamo chiesto un segno. Un gesto minimo. Non è arrivato. Sindaco Chiantore, aspettiamo ancora una risposta».
Non è uno sfogo. È una denuncia secca.
Poi Franco ha allargato il campo e ha colpito la manifestazione nazionale convocata a Roma da PD, M5S e AVS(tenutasi nella stessa giornata, ndr).
«Non aderiranno gli studenti palestinesi. Hanno ragione. Perché oggi, a Roma, si scende in piazza per Gaza evitando di dire la parola giusta: genocidio. Si dice “massacro”, “crisi umanitaria”, si piange, ma non si accusa. E intanto, da due anni, la carneficina va avanti, nel silenzio interessato di quei partiti che ora provano a riciclarsi».
Il suo intervento è stato una requisitoria lucida, brutale, che ha passato in rassegna ogni complicità istituzionale:
*«Il governo Renzi firmò accordi militari con Israele. Conte non li ha revocati. Draghi li ha ignorati. Meloni li ha proseguiti. Leonardo – partecipata dallo Stato – collabora con Elbit Systems, l’industria delle bombe. Fassino, Picierno, Delrio: sono loro a salire sul palco oggi. Ma non hanno mai detto una parola vera sulla Palestina. Hanno giustificato la rappresaglia, stretto mani ai coloni, riconosciuto Israele come unico Stato legittimo. E ora ci raccontano che Netanyahu è il problema. No: Netanyahu è il prodotto. Il sionismo è il progetto».
Nessuno lo ha interrotto. C’è chi ha annuito, chi ha stretto i pugni, chi si è commosso. Non c’è spazio per le mezze misure.
«Essere dalla parte del popolo palestinese – ha sottolineato Franco – significa dichiararsi oggi, qui, antisionisti. Non antisemiti. Antisionisti. Perché il sionismo è un progetto di colonizzazione, di espulsione, di apartheid. E chi non lo dice, chi lo edulcora, chi lo evita, è già fuori dalla storia».
Mariella Ottino ha spostato lo sguardo sull’altro fronte di guerra: l’Ucraina. Ma anche qui, la chiave è la stessa.
«Si finge che sia un conflitto tra eserciti – ha commentato – ma si muore per pochi metri di terra. La diplomazia è stata messa all’angolo. L’Europa arma, riarma, spende, chiude ogni via negoziale. Perché? Perché la guerra fa comodo. Fa paura e quindi tiene in piedi il potere. Ma non c’è più nessun equilibrio. I droni sono ovunque, gli attacchi partono anche da dentro. I leader non controllano più nulla».
A seguire, Luca Oliveri ha rilanciato sul prossimo appuntamento: la manifestazione nazionale del 21 giugno a Roma.
«Saremo in tanti. Ma non deve essere una passerella. Deve essere l’inizio di un processo permanente. Gaza brucia. L’Europa si arma. La società si militarizza. Ci serve convergenza, radicalità, continuità».
Paolo Piras ha letto e commentato un articolo di Chantal Meloni, giurista. Il passaggio chiave è uno:
«Non si tratta più di rischio genocidio. È un genocidio in corso. Punto».
Poi ha ricordato che la definizione giuridica è chiara, accettata da tutti, e che la Corte internazionale ne ha già preso atto.
«Chi dice che Israele si difende, mente. Chi tace, si rende complice. E chi fa finta di cercare parole più morbide, partecipa attivamente all’occultamento del crimine».
Brevissimo l'intervento di Livio Obert, ma necessario.
«L’Europa ha scelto la guerra. Perché la guerra è un grande affare. Ma noi continueremo a manifestare. Anche se ci ignorano. Anche se fanno finta di niente. Anche se i media non ci vedono».
Rosanna Barzan ha portato in piazza la voce di chi a Gaza ci vive: quella dell’architetta Alia Shamlakh, una vita ridotta a polvere.
«Abbiamo soldi ma non c’è nulla da comprare. Sopravviviamo per caso. Ogni pasto è un miracolo. Ogni notte è una condanna. Ma resistiamo, perché non possiamo permetterci di fermarci».
Lapidarie le parole di Marianna Trocino.
«Dio non assegna terreni – ha stigmatizzato – è immorale uccidere cento innocenti per prenderne uno. Il 7 ottobre è stato orrore. Ma possibile che il Mossad non sapesse nulla? I palestinesi sono stati sacrificati. I potenti del mondo hanno deciso che sono sacrificabili».
Silvio Conte ha raccontato che Emergency fatica persino a operare, ostacolata da Israele e anche dal governo italiano.
«Curare i feriti è ormai un atto politico».
Paolo Piras, in chiusura, ha citato Ilan Pappé, storico israeliano espulso per aver detto la verità.
«Il sionismo è un progetto coloniale. E va smantellato. Non celebrato. Leggete Pappé. Capirete perché il conflitto non è una tragedia senza colpe, ma un crimine con responsabili ben precisi».
La piazza ha applaudito e Obert ha aggiunto:
«Israele e Palestina dovranno convivere. L’ipotesi dei due Stati è morta da tempo».
Piras, di rimando: «Uno Stato solo, laico, giusto, libero».
E Oliveri: «Israele ha perso il diritto di definirsi Stato ebraico. La sua esistenza non può più poggiare sull’espulsione di un altro popolo».
E per la 171ª volta, il presidio si è concluso ma non si è sciolto.
Appuntamento in piazza al prossimo sabato – e a tutti quelli che verranno.
Perché la pace, a Ivrea, è diventata un’abitudine ostinata.
Una forma di resistenza settimanale.
Una voce collettiva che non accetta l’oblio. Né la rassegnazione.
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