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300.000 in piazza per la Palestina. E il governo finge di non vedere

Una marcia per la pace: 300.000 a Roma chiedono giustizia e riconoscimento per la Palestina, tra tensioni con i leader politici e un richiamo all'azione civile e culturale.

Una marea umana ha attraversato Roma sabato 7 giugno 2025 per chiedere la fine della guerra a Gaza e il riconoscimento dello Stato di Palestina. Trecentomila persone, secondo gli organizzatori, hanno sfilato da Piazza Vittorio a Piazza San Giovanni in Laterano. Numeri che hanno superato ogni previsione e riportato alla mente le grandi mobilitazioni contro la guerra in Iraq o il G8 di Genova. Ma questa volta, il grido è tutto per la Palestina.

Fin dalle prime ore del pomeriggio, via dello Statuto, via Merulana e poi via dell’Amba Aradam si sono riempite di bandiere palestinesi, cartelli, tamburi, slogan e cori. Il più scandito, "From the river to the sea, Palestine will be free", è risuonato forte tra le vie di una città blindata, nonostante i timori del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che nei giorni scorsi aveva promesso attenzione a ogni “deriva ideologica”.

In piazza c’erano famiglie, bambini, attivisti di ogni età, studenti, sindacalisti, volontari, religiosi. Ma anche la politica ufficiale. Presenti i principali leader dell’opposizione: Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, che hanno scelto di esporsi in prima persona, salendo sul palco allestito davanti alla basilica. "È finito il tempo dei silenzi e delle ambiguità", ha affermato la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein, convinta che "Israele debba fermare subito i bombardamenti e l’Italia riconoscere lo Stato di Palestina". La Schlein ha parlato con fermezza, denunciando il rischio di restare in silenzio mentre "un intero popolo viene sterminato".

Più giuridico l’approccio di Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, che ha ricordato che "la nostra Costituzione ripudia la guerra" e ha invocato "la sospensione immediata di ogni collaborazione militare con Israele". Secondo Conte, "il popolo italiano oggi è in piazza per chiedere pace, giustizia e coerenza con i principi democratici su cui si fonda la Repubblica".

Anche Nicola Fratoianni, portavoce di Sinistra Italiana, ha parlato dal palco, definendo la giornata "storica" e accusando apertamente chi minimizza le violazioni dei diritti umani: "Non è antisemita chi difende la dignità di un popolo sotto occupazione. Antisemita è chi nega l’umanità degli altri". Per Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde, la manifestazione ha rappresentato una condanna netta all’inerzia delle istituzioni europee: "L’Unione Europea è sparita. Complice. Assente. E l’Italia ha smesso di essere la patria del diritto internazionale per diventare la patria del doppiopesismo. È una vergogna", ha detto, chiudendo tra gli applausi.

Ma non tutto è stato armonia. I partiti promotori hanno dovuto fare i conti con le critiche arrivate da una parte della piazza. Gruppi di attivisti, tra cui i Giovani Palestinesi d’Italia, collettivi comunisti, centri sociali e delegazioni della diaspora, hanno contestato duramente la presenza dei rappresentanti istituzionali. Cartelli come “Ipocriti”, “Avete venduto armi a Israele”, “Palestina libera, Italia colpevole” sono comparsi tra le prime file, e non sono mancati momenti di forte tensione verbale. "Dov’eravate prima del 7 ottobre? Mentre firmavate export di armamenti verso Tel Aviv?", hanno gridato alcuni manifestanti. I contestatori hanno accusato proprio quei partiti di aver agito poco o nulla quando erano al governo.

Nonostante la presenza massiccia delle forze dell’ordine, non si sono registrati scontri né episodi di repressione. Gli steward della manifestazione e i volontari hanno svolto un lavoro capillare di mediazione, riuscendo a contenere le tensioni. La capitale ha retto all’urto della folla, pur con inevitabili disagi alla circolazione e linee di autobus deviate per tutto il pomeriggio.

Piazza San Giovanni si è riempita come non accadeva da anni. Tra le bandiere rosse della CGIL, quelle arcobaleno dei movimenti pacifisti, le kefiah e le croci cristiane, si è formato un mosaico umano di speranza e rabbia. Le voci dal palco hanno continuato a sovrapporsi per ore, ma il messaggio era sempre lo stesso: cessate il fuoco, giustizia per Gaza, riconoscimento dello Stato di Palestina.

A chiudere la giornata, un momento profondamente simbolico: il trombettista Paolo Fresu ha suonato Bella ciao, accompagnato dal silenzio della piazza. I leader politici, stretti uno accanto all’altro, hanno cantato in coro, mentre sul maxischermo scorrevano immagini dei bombardamenti su Gaza. Un finale denso di significato, che ha evocato la Resistenza italiana e i suoi valori, proiettati sul dramma attuale del popolo palestinese.

La manifestazione è stata anche l’occasione per lanciare un appello a tutto il mondo culturale e formativo. "La Palestina deve entrare nei nostri programmi scolastici, nei libri di testo, nella coscienza civile", ha detto una docente universitaria sul palco. "Se oggi dimentichiamo Gaza, domani potremmo dimenticare chiunque altro. E quando la memoria vacilla, la storia si ripete."

Dal palco, non sono mancati attacchi diretti al governo. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni è stata accusata di complicità e indifferenza. "Il governo si è inginocchiato di fronte a Israele e agli Stati Uniti. Ma Roma oggi ha parlato. E se Meloni non ascolta questa piazza, sarà la storia a condannarla", ha affermato un’attivista tra gli applausi.

Alla fine, resta una certezza: dopo mesi di bombardamenti e silenzi assordanti, sabato 7 giugno 2025, Roma ha alzato la voce. Gaza è tornata al centro dell’attenzione pubblica e politica. E anche se non è detto che questa piazza cambierà l’agenda del Parlamento, qualcosa si è mosso. Forse un’onda. Forse una coscienza collettiva. Forse solo una crepa, ma dentro quella crepa potrebbe passare la luce.

Una piazza, una ferita, una bandiera: la Palestina

Ci sono immagini che non si dimenticano. Bambini coperti di polvere, uomini che scavano a mani nude tra le macerie, donne che piangono davanti a corpi avvolti in teli bianchi. E ci sono parole che restano scolpite nella coscienza di chi ha ancora il coraggio di guardare il mondo con gli occhi della giustizia. Apartheid, occupazione, colonialismo, resistenza.

Sabato 7 giugno, Roma ha alzato lo sguardo. E lo ha fatto con 300.000 volti, con 300.000 cuori che hanno sfilato insieme per dire una cosa semplice, che oggi sembra rivoluzionaria: la Palestina esiste. E resiste.

È difficile spiegare a chi non vuol capire. È difficile usare la parola genocidio e non essere accusati di estremismo. È difficile dire che Israele, con i suoi bombardamenti indiscriminati, con i suoi insediamenti illegali, con i suoi check-point che spezzano la vita quotidiana, sta calpestando da decenni ogni principio di diritto internazionale. È difficile, ma è necessario. Perché restare in silenzio oggi è complicità. È sangue sulle mani.

Certo, la Storia è complessa. Certo, l’orrore del 7 ottobre ha scosso il mondo. Ma non può essere il pretesto per cancellare un popolo. Non può diventare la giustificazione per ridurre Gaza a un cimitero a cielo aperto. Non può trasformare chi osa criticare Israele in un nemico dell’umanità.

Il ricatto è evidente: se stai con la Palestina, sei contro gli ebrei. Ma questo è un trucco sporco. Un’arma ideologica. Antisionismo non è antisemitismo. Lo dicono anche tanti ebrei coraggiosi, che in Israele e nel mondo manifestano per la pace, per i diritti dei palestinesi, per un futuro che non sia fatto solo di vendette.

La manifestazione di Roma è stata un punto di rottura. Per la prima volta dopo mesi, le forze politiche progressiste hanno avuto il coraggio di esporsi. E sì, è vero, molti li hanno contestati. Hanno gridato “ipocriti”, hanno rinfacciato anni di complicità, export di armi, silenzi. Ma è anche vero che stare in quella piazza, prendersi insulti e fischi, è stato un atto politico importante. Un primo passo. Forse goffo. Forse tardivo. Ma necessario.

Perché oggi non serve ambiguità. Non servono le parole morbide. Non serve il cerchiobottismo dei comunicati ufficiali. Serve dire che l’Italia deve sospendere ogni collaborazione militare con Israele. Che deve riconoscere lo Stato di Palestina. Che deve votare alle Nazioni Unite dalla parte giusta. E che deve ricordare ogni giorno che la nostra Costituzione non è neutrale: ripudia la guerra.

I media mainstream, per troppo tempo, hanno raccontato solo una parte del conflitto. Hanno ridotto la Palestina a un “problema di sicurezza”. Hanno ignorato la Nakba, i campi profughi, gli ulivi bruciati, i pescatori di Gaza uccisi, gli arresti arbitrari. Hanno dato voce ai potenti, agli ambasciatori, ai portavoce, ma non ai contadini, ai medici, agli insegnanti, agli artisti palestinesi. Hanno tolto umanità a chi vive dietro un muro, e hanno trasformato l’oppressore in vittima perenne.

No. Basta. Oggi tocca a noi raccontare la verità.

La Palestina è un popolo. Non una sigla. Non un pericolo. Non un bersaglio. È un popolo con cultura, storia, dignità. E ha diritto a vivere. A viaggiare. A studiare. A sognare. A crescere senza temere che una bomba spazzi via casa e famiglia in una notte.

Chi difende la Palestina non inneggia al terrore. Non giustifica la violenza. Ma ha il coraggio di guardare in faccia il colonialismo, anche quando porta la kippah. Anche quando ha l’appoggio degli Stati Uniti e dell’Europa. Anche quando la comunità internazionale si gira dall’altra parte.

È il momento di scegliere. Di non voltarsi. Di non restare indifferenti.

Oggi è Gaza. Domani sarà Jenin. Dopodomani sarà Hebron. E un giorno, quando la storia farà i conti, ognuno dovrà rispondere: io dov’ero, mentre il popolo palestinese veniva cancellato?

Roma ha risposto. E noi, da qui, dobbiamo continuare a farlo.

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