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Ivrea "libera dall'apartheid israeliana"

"Ivrea in marcia per la giustizia: un appello accorato per una città 'libera dall'apartheid israeliana', tra manifestazioni, impegno civile e la voce di chi non si arrende all'indifferenza

"Gentile Sindaco, gentile Assessore al Commercio...". Comincia così, con tono misurato e parole che pesano come pietre, la lettera che Franco Giorgio ha letto  al 167° Presidio per la Pace di Ivrea, tenutosi sabato scorso. 

Una lettera indirizzata al Sindaco Matteo Chiantore, ma che in realtà parla a tutti. Un appello accorato che nasce da una certezza: non c'è più tempo. Non si può più restare a guardare. Dopo mesi di silenzio istituzionale, dopo migliaia di vittime e crimini documentati, serve una svolta. E quella svolta, se non può partire dai grandi governi, deve cominciare da città come Ivrea.

"Vi ringraziamo per la vostra lettera al Presidente della Repubblica" – ha letto Giorgio davanti alla piazza silenziosa – "ma ora serve molto di più". Gaza muore. La Palestina muore. E con essa rischia di morire anche il senso stesso delle parole giustizia e umanità. Per questo, l'appello è chiaro: Ivrea deve dichiararsi città "libera dall'apartheid israeliana". Non una formula vuota, ma un gesto preciso, che significa scegliere, esporsi, agire. Come hanno fatto altre città del mondo, da Barcellona a Oslo, da Liegi a Belem, anche Ivrea può decidere di non essere più complice.

La proposta è concreta. Una frase da stampare e affiggere nelle vetrine dei negozi, sulle porte degli uffici pubblici, dentro le scuole: "Questo spazio si dichiara contro la politica di discriminazione, colonizzazione e segregazione che Israele utilizza contro il popolo palestinese...".

Parole semplici, ma forti. Perché la pace non si costruisce con la retorica, ma con atti visibili. Anche piccoli. Anche quotidiani.

Nei giorni scorsi, il Comune di Ivrea ha risposto a mesi di sollecitazioni del Presidio. Ha inviato una lettera formale al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio e al Ministro degli Esteri. Un fatto raro. Eppure ancora insufficiente. Il documento chiede il riconoscimento dello Stato di Palestina con Gerusalemme Est capitale, un cessate il fuoco immediato e duraturo, e la sospensione degli accordi politici, economici e militari con Israele. Parole giuste.

Finalmente. Ma ora bisogna darle gambe, e portarle nelle strade, nelle botteghe, nei cuori.

Il testo, letto integralmente in piazza, parla di rispetto dei diritti umani, tutela della popolazione civile, promozione del dialogo. Non sono frasi generiche. Sono scelte precise. Scelte che dicono che l'Italia non può continuare a rimanere spettatrice muta. Il Presidio applaude. Ma non si ferma. Chiede di più. Chiede che tutta la città si prenda la responsabilità di essere dalla parte giusta della Storia. Perché la dignità, se è vera, non si chiude in un documento protocollato. Deve camminare tra le persone.

Come ogni sabato, al presidio, per primo ha preso la parola Pierangelo Monti. La sua voce, in questi tre anni, è diventata colonna sonora di una resistenza civile costante, umile, instancabile.

"Anche oggi siamo qui", ha esordito. "Gaza continua a bruciare. L'Ucraina e la Russia si preparano alla guerra totale. In India e Pakistan si tornano a scambiare missili. E noi? Noi siamo in questa piazza. Ancora. Perché non ci arrendiamo."

Poi ha fatto ciò che fa sempre: ha raccontato i numeri. Ma non come cifre vuote, bensì come ferite. 34 morti nella scuola Abu Hamisa. 33 in un ristorante di Gaza City. 27 nel campo profughi di Jabaliya, tra cui 4 civili rifugiati in un centro delle Nazioni Unite. Le scuole dell'UNRWA chiuse con la forza a Gerusalemme Est, poliziotti armati che allontanano i bambini, maestri costretti a fuggire. "È un genocidio in diretta", ha detto Monti. "E l'Europa guarda altrove". Ma Ivrea no. Ivrea guarda. E prende posizione.

Per questo, al termine del presidio, si è annunciata la manifestazione del 24 maggio. Un grande corteo cittadino partirà alle ore 16 dalla stazione ferroviaria. Percorrerà corso Nigra, via Palestro, attraverserà piazze e strade, per concludersi in piazza Ottinetti. Lì si fermerà. Per raccontare, per denunciare, per proporre. Ci saranno musica, parole, testimonianze, interventi artistici, stand informativi, raccolte firme, idee da condividere. Sarà un pomeriggio diverso, in cui la città non si limiterà a passeggiare. Ma camminerà insieme, dentro un progetto più grande.

Monti ha anche alzato lo sguardo. Ha parlato dell'Iran, delle nuove minacce israeliane, del ritorno delle tensioni tra India e Pakistan. "Tutto sembra scivolare verso la catastrofe. Ma non possiamo dire: non ci riguarda. Perché tutto ci riguarda. 'Nihil humanum mihi alienum est'. Nulla di ciò che è umano mi è estraneo."

bambine

Hanno preso la parola anche Augusta Castronovo e Adriano Ferrero, dell'associazione Il Sogno di Tsige. Hanno parlato del Tigray, in Etiopia. Una guerra etnica di cui nessuno parla. Ottocentomila morti. Ospedali senza corrente. Scuole chiuse. Bambini affamati. "Noi ci siamo stati. E ora torniamo per ricostruire. Ma non possiamo farlo da soli."

Livio Obert ha ricordato Luigi Bettazzi, il vescovo della pace. Due anni fa salutava per l'ultima volta il presidio. Credeva nella diplomazia, nell'interposizione, nella nonviolenza. Non è stato ascoltato. E oggi le sue parole sembrano profezia. Ma il presidio non le ha dimenticate. Le ha raccolte. Le ripete. Le onora.

Infine, Luca Oliveri, di Rifondazione Comunista, ha letto un comunicato da far gelare i polsi: "Il 4 maggio Israele ha approvato la soluzione finale per Gaza. Due milioni di persone da deportare verso Rafah. Niente acqua. Niente cure. Solo bombe." E poi un'accusa diretta: "L'Occidente è complice. Muto. Ipocrita."

Il presidio non si chiude. Si trasforma in calendario. Lunedì 12 maggio ci sarà un incontro con Enrico Peyretti allo ZAC!. Martedì 13, sempre allo ZAC!, una serata di riflessione sulla resistenza curda e palestinese con l'avvocata Michela Arricale e la giornalista Dalia Ismail. Giovedì 15, la giornata internazionale dell'obiezione di coscienza. Sarà il tema del prossimo presidio.

E poi arriverà il 24 maggio. Un giorno che peserà. Un giorno che Ivrea non vuole dimenticare. Perché la pace non si firma. Si costruisce. Una parola, una scelta, una piazza alla volta. 

Non siete soli. E noi non siamo neutrali.

C’è un’Italia che sta zitta. Che si volta dall’altra parte. Che parla di pace mentre firma contratti d’armi. Che si indigna solo quando la cronaca lo permette, quando non disturba, quando è comodo. E poi c’è Ivrea. C’è una piazza. Una piazza piccola, testarda, incorruttibile. Una piazza che non si spegne.

Il Presidio per la Pace, ogni sabato, a Ivrea, ci ricorda che la coscienza civile non è un ricordo degli anni Settanta. È un atto necessario, qui e ora. In un Paese che ha smesso di indignarsi, in un’Europa che continua a vendere bombe, in un mondo che si abitua ai bambini uccisi e ai civili sepolti vivi sotto le macerie, loro restano. E fanno quello che nessuno vuole più fare: dicono la verità.

Dicono che quello che accade a Gaza è un genocidio. Dicono che l’occupazione israeliana non è autodifesa, ma apartheid. Dicono che le parole “diritti umani” non hanno senso se restano chiuse nei comunicati. E lo dicono non nei salotti, ma per strada. In faccia alla città. In silenzio o con un microfono, con uno striscione o con una lettera, ma lo dicono. Sempre.

Noi, come giornale, non siamo qui per ringraziarli. Siamo qui per dirlo chiaro: noi stiamo con loro. Con chi resiste. Con chi denuncia. Con chi non accetta di essere complice. Non siamo neutrali, perché davanti a un massacro, la neutralità è vigliaccheria. E noi non abbiamo intenzione di essere vigliacchi.

In questo tempo dove tutto è ridotto a tifo, slogan, partigianeria cieca, il presidio ci costringe a guardare in faccia la realtà: non c’è simmetria tra chi bombarda e chi muore, tra chi occupa e chi è cacciato, tra chi spara e chi scappa. E se dire questo significa essere schierati, allora sì: siamo schierati. Dalla parte dei giusti. Dalla parte degli ultimi. Dalla parte della vita.

Il Presidio per la Pace non chiede applausi. Chiede di non voltarsi. E noi, nel nostro mestiere quotidiano di fare domande e cercare risposte, abbiamo un dovere preciso: non farli sentire soli. Non lasciarli parlare nel vuoto. Non ridurre le loro parole a una curiosità locale.

Sono molto di più. Sono una frontiera. Una resistenza civile. Una lezione settimanale di umanità, sobrietà, disobbedienza morale. E come giornale, questa lezione noi la ascoltiamo. La amplifichiamo. La portiamo fuori dalla piazza. Perché chi cammina ogni sabato al fianco del popolo palestinese, cammina anche per noi. Anche per chi non c’è. Anche per chi finge di non vedere.

E allora sì. Che sia chiaro a tutti. Se c’è da scegliere, tra il palazzo e la piazza, tra chi tace e chi denuncia, tra chi conta i morti e chi li piange, noi abbiamo già scelto.

Il presidio è dalla parte giusta della Storia.

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