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Cronaca
11 Dicembre 2025 - 13:22
Tribunale
La cronaca giudiziaria di Venezia torna a interrogarsi sul significato di una parola minuscola e pesantissima: mio. È il frammento di una chat che diventa prova, indizio, sospetto. Ed è da lì che un tribunale ha ricostruito una relazione durata nove mesi tra un 57enne e una ragazza di 15 anni, concludendo che quel rapporto — per quanto disturbante — non integra un reato di violenza sessuale. L’uomo è stato assolto perché il fatto non sussiste. E la domanda che resta sospesa è la stessa che attraversa da anni il dibattito italiano: quanto è davvero libero il “sì” di un’adolescente?
Dalle carte emerge una relazione nata online nel novembre 2020: like, messaggi, fotografie. Una progressione rapida, che la ragazza accompagna con frasi come «Tu sei mio». I giudici leggono un coinvolgimento affettivo non riconducibile a coercizione; la Procura, invece, parla di pressione psicologica mascherata da reciprocità. Per nove mesi gli incontri avvengono con regolarità, spesso quando i genitori della giovane non sono in casa. Il pm Giovanni Zorzi chiede otto anni, puntando sull’asimmetria anagrafica e sulle modalità del contatto digitale. La giudice Francesca Zancan valuta però che la costrizione non sia provata oltre ogni ragionevole dubbio.
Il nodo è tutto qui: provare la costrizione. Nel nostro ordinamento, un rapporto tra un adulto e un quindicenne non è automaticamente reato. Lo diventa solo se c’è violenza, minaccia, abuso di autorità, oppure se l’adulto rientra nelle figure che la legge riconosce come “affidanti”: genitori, ascendenti, tutori, conviventi. È il confine tecnico che sorregge la decisione veneziana. La legge punisce anche l’abuso di influenza, ma solo quando è documentabile e nasce da un contesto di convivenza, ospitalità, lavoro o famiglia. Qui, hanno scritto i giudici, nessuna di queste condizioni risulta dimostrata.
Le chat diventano il centro del processo: dimostrano una relazione bidirezionale o rivelano manipolazione? Per la difesa la risposta è la prima; per l’accusa la seconda. Il tribunale sceglie la strada del garantismo probatorio: se la costrizione non è certa, la condanna non è possibile. E non bastano — sottolineano i magistrati — episodi “ambiguamente invasivi” come l’avvicinamento in barca durante una gita familiare: fatti moralmente discutibili, ma insufficienti a fondare un’accusa penale.
Il caso veneziano non crea un precedente. Applica la regola. Lo si vede confrontandolo con vicende affini, come quella decisa ad Ancona nell’ottobre 2025, dove la Corte d’appello ha ribaltato un’assoluzione condannando l’imputato per violenza su una 17enne. Lì il consenso è risultato assente “dall’inizio alla fine”. Qui, invece, la partecipazione della ragazza — per quanto inquietante — è stata ritenuta provata.
Restano aperte le domande non giuridiche. Trentasette anni di differenza non sono un dettaglio. Nove mesi non sono un episodio. Il contesto digitale, piena pandemia, ha ampliato vulnerabilità e solitudini. E quel «Tu sei mio» pronunciato da una quindicenne racconta un’ingenuità affettiva che nessuna formula processuale può assolvere. Ma il tribunale non è chiamato a valutare la salute emotiva di una relazione: è chiamato a verificare se la violenza c’è stata. In assenza di prove, il codice impone una sola risposta.
L’assoluzione potrà essere impugnata dal pm. Appello e Cassazione riscriverebbero eventualmente la storia giudiziaria di questa vicenda. Ma intanto la sentenza ribadisce un principio scomodo e necessario: nel dubbio, non si condanna. È il limite — e la forza — del diritto penale. Tutto ciò che resta fuori da quel perimetro spetta alla società, alla scuola, alle famiglie. Non ai tribunali.
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