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Cronaca
06 Dicembre 2025 - 12:06
Acido nel salone a Verbania, condanna a 3 anni: il Gup esclude lo sfregio permanente (immagine di repertorio)
Un gesto pianificato, due flaconi di acido cloridrico rovesciati addosso alla ex compagna e una corsa disperata verso il lavaggio che ha evitato lo sfregio. Da questa sequenza prende forma il caso giudiziario che a Verbania ha portato alla condanna di un uomo di 64 anni a tre anni di reclusione, un verdetto che lascia aperte domande profonde sulla violenza di genere e sui criteri con cui, in diritto penale, si qualifica un tentativo di sfregio permanente.
L’aggressione risale al 28 dicembre 2024. All’interno del salone da parrucchiera della vittima, il 64enne svuotò su di lei due bottigliette di acido cloridrico al 6,5%, colpendola su capelli, collo e viso. Solo l’immediatezza del risciacquo e l’aiuto dei clienti di un bar vicino evitarono lesioni irreversibili. L’episodio scatenò da subito un’indagine serrata, anche alla luce dei messaggi intimidatori inviati dall’uomo nei giorni precedenti: «quegli occhi potrebbero non vedere più», «l’acido brucia bene», «d’ora in poi guardati le spalle!». Parole che, messe agli atti, hanno pesato nella ricostruzione della dinamica pregressa.
Il 12 novembre 2025, il Gup di Verbania Mauro d’Urso ha pronunciato la sentenza: tentate lesioni gravissime e minacce, non tentata deformazione permanente dell’aspetto né stalking. Una decisione motivata con un principio giuridico ben noto, ma raramente così esposto all’attenzione pubblica: per configurare il delitto di tentato sfregio, l’azione deve essere “idonea” a provocare l’evento in concreto. Secondo il giudice, la combinazione tra la concentrazione della sostanza e la possibilità di un risciacquo immediato ha reso l’esito deformante “non concretamente realizzabile”. Da qui la riqualificazione dell’accusa.
La sentenza ha previsto anche una provvisionale di 10.000 euro alla vittima, di cui 4.000 già versati. L’imputato, che ha scelto il rito abbreviato, è oggi ai domiciliari. La sua difesa parla di “un momento di pazzia”, mentre la parte civile — in particolare l’avvocato Mario Di Primo — ha espresso perplessità sulla severità della pena: troppo bassa, a suo avviso, per un episodio di violenza così esplicito e premeditato.
La decisione del Gup riporta sotto i riflettori il significato pratico del reato introdotto dal Codice Rosso: la deformazione permanente del viso è una fattispecie pensata per proteggere in modo rafforzato le vittime, con pene significativamente più dure. Tuttavia, nei casi di tentativo, la giurisprudenza impone di valutare non solo l’intenzione dell’aggressore, ma la concreta possibilità che l’azione porti allo sfregio. Una distinzione tecnica che, oggi, si scontra con la percezione sociale della violenza, soprattutto quando colpisce donne in contesti di relazione.
Sul piano umano e politico, il caso di Verbania è il ritratto di un’ennesima storia che non si esaurisce in un’aula giudiziaria. I messaggi minacciosi, l’acido portato nel luogo di lavoro della vittima, la dinamica dell’assalto: tutti elementi che riportano al centro il tema della prevenzione e della tempestività nelle misure di protezione. È un punto che rimbalza da tempo nelle discussioni pubbliche, mentre il Paese continua a confrontarsi con episodi di violenza estrema e tentativi di femminicidio. La sentenza, pur fondata su criteri di diritto, si inserisce in questo contesto e ne alimenta le tensioni.
Resta il nodo più delicato: che cosa protegge davvero le donne? L’attenzione delle istituzioni, la coerenza delle norme, l’efficacia delle misure cautelari, la capacità di leggere segnali come minacce ripetute e comportamenti ossessivi prima che precipitino in gesti irreparabili. La storia di Verbania — come molte altre — non lascia risposte semplici, ma mostra ancora una volta quanto sia sottile la linea tra un’aggressione evitata e una tragedia compiuta.

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