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Cronaca

Assolto Silvio Viale: per il Gup “il fatto non costituisce reato”

Quattro capi d’accusa caduti, sei denunce archiviate e una richiesta di condanna a un anno e quattro mesi che non ha retto in aula. Ora resta il dibattito sul rapporto tra medicina, consenso e tutela delle pazienti

Assolto Silvio Viale

Assolto Silvio Viale: per il Gup “il fatto non costituisce reato”

Silvio Viale, ginecologo ed esponente di +Europa in Consiglio comunale a Torino, è stato assolto dall’accusa di violenza sessuale su alcune pazienti. La formula scelta dal giudice dell’udienza preliminare — “il fatto non costituisce reato” — chiude un procedimento che negli ultimi mesi aveva polarizzato l’opinione pubblica, proprio per la delicatezza del contesto in cui è maturato: quello della relazione medico–paziente, terreno da sempre complesso quando si tratta di valutare comportamenti inappropriati o zone d’ombra professionali.

Il processo nasce da dieci denunce presentate tra 2023 e 2024 da giovani donne, alcune poco più che ventenni, che lamentavano comportamenti inopportuni durante visite ginecologiche: tocchi percepiti come non necessari, commenti sulla fisicità definiti inopportuni, richieste ritenute fuori contesto e presunte fotografie scattate senza consenso esplicito. Nel tempo, sei di queste denunce sono state archiviate dalla Procura per insufficienza di riscontri, mentre una settima è stata ritirata. Restavano quattro capi d’accusa, sui quali si è concentrato il rito abbreviato scelto dall’imputato.

Per quei quattro episodi la procura aveva chiesto una condanna a un anno e quattro mesi, ritenendo configurabile una forma di violenza sessuale di minore entità, fondata — secondo l’accusa — sull’abuso della posizione professionale. La difesa, guidata dall’avvocato Cosimo Palumbo, ha sempre sostenuto che le condotte contestate non integrassero alcun atto a connotazione sessuale e che i comportamenti oggetto di denuncia fossero stati, al massimo, fraintesi o ricondotti a prassi cliniche non adeguatamente spiegate alle pazienti.

Il Gup ha condiviso questa impostazione: secondo il giudice, gli elementi raccolti non dimostravano un intento sessuale dietro agli atti contestati e non potevano dunque integrare il reato previsto dal codice penale. Un’assoluzione piena, che chiude la vicenda giudiziaria ma non cancella le tensioni emerse durante l’inchiesta.

Per molte delle donne che avevano denunciato, la decisione ha un peso difficile da elaborare: alcune hanno descritto un vissuto di disagio, umiliazione e imbarazzo, un confine sottile in cui la percezione soggettiva della paziente si scontra con la necessità del giudice di valutare i fatti in modo rigorosamente tecnico. È proprio questa frattura — tra il sentire di chi denuncia e il parametro giuridico necessario per condannare — che rende il caso Viale particolarmente significativo.

C’è poi il piano pubblico. Viale non è solo un medico: è una figura molto conosciuta nella politica torinese, per le sue battaglie storiche in tema di diritti civili, interruzione volontaria di gravidanza e fine vita. Una notorietà che ha inevitabilmente amplificato la vicenda, attirando l’attenzione sia dei suoi sostenitori sia dei suoi detrattori.

La sentenza arriva dopo mesi di polemiche, richieste di chiarimento e un confronto serrato sui confini dell’agire medico: quand’è che un gesto diventa invasivo? Qual è la linea che separa una prassi clinica da un comportamento inappropriato? E soprattutto: come si tutela una paziente quando ciò che denuncia è difficilmente dimostrabile sul piano probatorio?

Ora l’assoluzione chiude il processo, ma non chiude il dibattito. Alcune delle persone che avevano sporto denuncia stanno valutando ulteriori iniziative, mentre il mondo sanitario si interroga — ancora una volta — sulla necessità di procedure più chiare, spazi più sicuri e una comunicazione più trasparente durante visite che, per la loro natura, espongono la paziente a una posizione di vulnerabilità.

Per Viale si tratta di un’assoluzione piena. Per chi ha denunciato resta una ferita aperta. Per la città, un caso che interroga il modo in cui si affrontano le accuse in campo medico: un equilibrio fragile tra la tutela della dignità delle pazienti e la presunzione d’innocenza che, in uno Stato di diritto, vale per chiunque.

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