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Cronaca

Insulti, calci e pugni: l’appello conferma la condanna per l’aggressione omofoba di Cuneo

La Corte d’appello di Torino ribadisce la natura del gesto: insultato e picchiato fuori da un locale, il 30enne ottiene un nuovo riconoscimento giudiziario

Insulti, calci e pugni: l’appello conferma la condanna per l’aggressione omofoba di Cuneo

Insulti, calci e pugni: l’appello conferma la condanna per l’aggressione omofoba di Cuneo (immagine di repertorio)

Sguardi che si distolgono, parole che colpiscono prima dei pugni. È in questo interstizio di ostilità e violenza che, a Cuneo, nel febbraio 2023, una notte di festa si trasformò in un’aggressione. Un 30enne originario di Sondrio, uscito con gli amici da un locale di via Saluzzo, venne insultato per il suo orientamento e subito dopo picchiato. Oggi, quasi tre anni dopo, quella violenza ha nuovamente una qualificazione giuridica: la Corte d’appello di Torino ha confermato la responsabilità dell’imputato, riducendo la pena ma ribadendo l’impianto della sentenza di primo grado.

Il fatto, ricostruito con precisione dagli atti, resta nitido nelle sue fasi essenziali. All’esterno del locale, le prime parole dell’aggressore furono un attacco diretto alla dignità della vittima, frasi come «Ti chiami Cenerentola?» e «Non sei un uomo», un linguaggio che anticipava la violenza fisica. Poi, l’escalation: calci e pugni, inflitti senza alcun pretesto, in quella che i giudici cuneesi definirono una “grave violenza esercitata senza motivo e con finalità discriminatorie”.

Il processo d’appello, celebrato a Torino, ha ridefinito soltanto il profilo sanzionatorio. L’imputato, Soufian Bouaki, oggi 29 anni, vede scendere la pena da dieci a sette mesi, ma per il resto la decisione sostiene quanto già stabilito in primo grado: la matrice discriminatoria dell’aggressione è un elemento inscindibile, che qualifica l’intero episodio. Non si tratta di un dettaglio tecnico, ma del riconoscimento che le parole pronunciate prima dei colpi non furono espressione di un impeto casuale: furono parte della violenza stessa.

All’uscita dall’aula, la vittima — assistita dall’avvocato Sergio Favretto — ha espresso un sollievo composto. «Sono contento perché sembra sia stata confermata l’aggravante della discriminazione», ha dichiarato, aggiungendo poi: «Spero che così si chiuda questa storia». Un pensiero che restituisce non solo la fatica emotiva del percorso giudiziario, ma anche il bisogno di una conclusione che dia senso alla denuncia. «È stato difficile rivedere la persona che mi ha fatto questo», ha ammesso, spiegando la dimensione personale di una vicenda che, pur approdata in tribunale, resta un trauma privato.

La rilevanza della sentenza è anche sociale: riaffermare che il movente conta. Che nelle aggressioni motivate dall’orientamento sessuale, il linguaggio non è un contorno ma un detonatore, un atto che contribuisce a qualificare il reato. La prima decisione del Tribunale di Cuneo era stata letta come un precedente importante; il fatto che anche il secondo grado confermi sostanzialmente quell’impianto giudiziario consolida un principio: la discriminazione non è un’opinione, e quando diventa violenza richiede una risposta chiara e riconoscibile.

La riduzione della pena non smonta questo quadro. Al contrario, enfatizza la necessità di un accertamento rigoroso di ogni elemento, dalle dinamiche ai contenuti delle frasi pronunciate, e si inserisce nella fisiologia della giustizia. Il reato rimane, la responsabilità resta, la lettura discriminatoria non viene attenuata.

Resta ora l’attesa degli eventuali sviluppi futuri, ma intanto questa sentenza invia un messaggio che esce dalle aule giudiziarie: la tutela della dignità delle persone LGBT+ passa anche attraverso il riconoscimento esplicito del movente d’odio, che non può essere minimizzato o relegato ai margini del fascicolo.

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