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Cronache

Morto in cella a 47 anni, rinviati a giudizio tre medici: era il ‘Vespino’ del giornale La Fenice

Il detenuto Andrea Pagani Pratis, caporedattore de “La Fenice”, si spegne dopo giorni di febbre e dolori ignorati. Per la Procura di Ivrea è omicidio colposo: tre camici bianchi alla sbarra. E dentro le mura resta un vuoto che non si colma

Vespino, carcere di ivrea, ivrea

Vespino

Si firmava “Vespino” e con questo suo pseudonimo scriveva tanto, ma proprio tanto.  

L’ultimo suo articolo, sulla rivista  online “La Fenice” del carcere di Ivrea, risale al 4 gennaio 2024. Tre giorni dopo “Vespino”, 47 anni, è morto. 

Quando la notizia è cominciata a circolare da una cella all’altra, alla velocità della luce, in molti avevano cominciato a piangere. A piangere di brutto. Per quello che lui rappresentava lì. 

E lì quel che sei stato fuori, quello che hai combinato nel mondo reale, proprio non conta.

Vespino

Vespino faceva il caporedattore. Un leader che cercava di portare avanti, con una incredibile passione, il lavoro nel suo insieme, trascinando e spronando gli altri a scrivere sempre  di più e sempre meglio. 

La notizia oggi è che tre medici che lo avevano in cura sono stati rinviati a giudizio su richiesta del pubblico ministero Valentina Bossi.

La Procura di Ivrea ipotizza per tutti l'accusa di omicidio colposo nell'esercizio della professione sanitaria.

Si tratta di Zakaria Abdalla Jabur Mutlag, 68 anni, di origine giordana (difeso dall'avvocato Alberto Bazzani), Edoardo Tappari, 27 anni (avvocato Roberto Rossi), e Giovanni Dal Vecchio, 34 anni, medico gettonista della cooperativa Cm Service (difeso da Roberto Longhin).

Per Tappari, inoltre, la pm Valentina Bossi ipotizza anche l’accusa di falso, per non aver redatto alcun referto medico. 

L’udienza preliminare è fissata per il 5 febbraio. In quell’occasione, la madre e il fratello del detenuto si costituiranno parte civile. 

Il castello accusatorio evidenzia un concatenarsi di omissioni. Il 31 dicembre 2023, Mutlag visita il detenuto, che già da tre giorni lamentava febbre alta, tosse e sudorazione, ma non ritiene necessaria una terapia specifica.

Il 4 gennaio, viste le condizioni invariate, Tappari prescrive antibiotici, antinfiammatori e mucolitici, ma senza ulteriori accertamenti. Il 6 gennaio, il quadro clinico peggiora ulteriormente. Dal Vecchio lo visita due volte, mattina e pomeriggio, nell'infermeria del carcere, ma il detenuto venne rimandato in cella, dove la mattina successiva muore.

La perizia medico-legale ha stabilito che Pagani Pratis presentava astenia, tachipnea e tachicardia evidenti, segnali che avrebbero dovuto spingere i medici a un ricovero immediato.

Insomma, dicevano che Vespino fosse morto per “embolia polmonare” e le perizie lo hanno confermato.

Vespino”, stando ai racconti di chi lo conosceva, da più di una settimana stava male e giorno dopo giorno era peggiorato sempre di più. Faceva fatica a camminare, respirare, muoversi. Aveva dolori in ogni parte del corpo. Nelle ultime ore le labbra erano diventate viola e il colore della sua pelle  biancogiallastra. 

Tutto molto strano considerando che solo qualche giorno prima che si ammalasse, sano come un pesce, aveva giocato a calcio per due ore senza alcun problema. 

Vespino è morto ed è subito diventato un numero, nel conteggio che si fa di chi passa a migliore vita in carcere. 

E per la cronaca, fredda e severa solo in questi casi, Andrea Pagani Pratis era semplicemente uno che stava scontando una condanna a 18 anni di reclusione. Uno che prima dell’arresto, faceva l’insegnante di educazione fisica. Fine della notizia.

Insomma fuori dal carcere qualcuno ha detto “Amen”, là dentro, invece, in molti han cominciato a borbottare, a farsi delle domande sul senso della propria esistenza e della vita, puntando il dito sulle responsabilità di chi nell’area medica ha preso quel malessere sottogamba facendolo passare per una semplice influenza.

“L’ultima volta che è sceso in infermeria - disse e scrisse La Fenice - l’hanno dovuto accompagnare.. Il dottore gli ha detto: prenditi una Tachipirina ed un Brufen e vedrai che ti passa... Perchè i dottori tendono sempre un po’ a sottovalutare le lamentele dei detenuti, pensando che esagerino... Quel dottore ... dovrà come minimo fare i conti con la propria coscienza...”.

Ebbene sì! Vespino non stava esagerando. Sarebbe bastata un’analisi del sangue per capirlo.

“Oggi ci sentiamo tutti colpevoli anche noi compagni di sezione. Ci domandiamo se potevamo fare qualcosa in più per aiutarlo...”.

Vespino aveva addirittura compilato il  mod. “393” che è quel prestampato con il quale i detenuti chiedono di essere ricoverati in ospedale.

“E’ assurdo e dovrebbe far riflettere - denunciava in quei giorni il giornale - Perché un detenuto dovrebbe fare richiesta di essere ricoverato quando per questo ci sono i medici che decidono il ricovero di ogni singolo detenuto?”.

Già! Perchè?

Probabilmente perchè in carcere si tende a catalogare il detenuto non come una persona che si dovrebbe aiutare a stare meglio?

Sarà per questo che in molti oggi vorrebbero che si facesse piena luce su tutta la vicenda?

Che la morte di Vespino meriti un’indagine o un approfondimento è certo. 

“Non si può morire a 47 anni in questo modo - si leggeva - Non si può star male da più di una settimana, peggiorare giorno dopo giorno e arrivare al punto di dover chiedere, inascoltato, di  essere ricoverato ... ci sono i medici che sono pagati per ... capire se una persona finge, esagera o sta realmente male. Col senno di poi, se il medico avesse perso dieci minuti in più del suo tempo .... ora non si starebbe nemmeno parlando di questo caso e si sarebbe salvata la vita ad una persona di soli 47 anni...”. 

E questa volta - bene dirlo, anzi no  lo dicevano loro, i carcerati -  da parte degli Agenti della Polizia Penitenziaria ci sarebbe stata la massima disponibilità ad aiutare  Vespino e a farlo scendere in infermeria tutte le volta che lo chiedeva.

E poi? 

Poi ci sono loro Olivia Realis Luc e Francesco Curzio, due redattori esterni che Vespino, continuavano a vederlo lì,  seduto  al computer mentre stava facendo le ultime correzioni agli articoli da pubblicare. 

E anche là davanti alla lavagna durante una riunione di redazione a parlare di proposte o di un tema da affrontare...

"Il tuo essere - scrivevano anche loro  - conferma il prezioso aforisma che “l’uomo non è il suo reato”. Ciao Vespino, ci vediamo alla prossima riunione, e tu, con un sorriso e uno sguardo meno triste  rispondi come sempre: “ci sarò…”.

Fermi tutti! La riunione deve andare avanti. C’era una notizia! E’ morto Vespino! Che titolo facciamo...?  

Potrebbe andare bene: “E’ morto Vespino de La Fenice, il giornale del carcere di Ivrea... Aveva preso una tachipirina e un brufen...”. E poi il dilemma:  "Occhio che ci chiudono". E li hanno chiusi davvero.

Perché Vespino non doveva morire

Era in una cella di Ivrea, con la febbre che non passava, il respiro corto, le labbra viola. Chiedeva solo una cosa: aiutatemi. Non l’hanno fatto. Gli hanno detto “Tachipirina e Brufen”, come se bastassero due pastiglie a cancellare un dolore che invece era un grido. E quel grido si è spento il 7 gennaio 2024, quando a 47 anni Andrea Pagani Pratis, che tutti chiamavano Vespino, ha smesso di respirare.

Non era un santo, non era un eroe. Era un uomo. Aveva sbagliato, come sbagliano in tanti. Ma in carcere aveva trovato un modo per rimettere insieme i pezzi: la scrittura. Per i suoi compagni era il caporedattore de La Fenice, il giornale nato dietro le sbarre. Li spronava, li correggeva, li trascinava. Credeva che le parole potessero restituire dignità dove tutto sembrava perso. Per questo oggi, la sua morte non pesa solo come un fatto di cronaca giudiziaria: pesa come una ferita aperta, che sanguina per tutti.

Non si può morire così. Non a 47 anni. Non dopo giorni di febbre ignorata, di visite superficiali, di richieste di ricovero rimaste carta straccia. Non si può morire in questo modo in un Paese che si dice civile. Eppure è successo.

Il carcere avrebbe dovuto custodire un corpo, non cancellare una vita. Dentro quelle mura Andrea era tornato a vivere: scrivendo, discutendo, progettando articoli, giocando a calcio, ridendo con i compagni di sezione. Poi la malattia lo ha piegato, e la negligenza lo ha ucciso. Perché sì, di questo si tratta: di negligenza.

Chi lo conosceva racconta che nelle ultime ore faceva fatica persino a camminare. Che lo accompagnavano in infermeria perché da solo non ce la faceva. Che aveva chiesto lui stesso, con un modulo compilato a mano, di essere ricoverato. Eppure niente. Rimandato in cella, a morire da solo.

E qui sta l’abisso. Perché quando un uomo implora aiuto e nessuno lo ascolta, muore due volte: la prima nel silenzio della sua cella, la seconda nella nostra indifferenza.

“L’uomo non è il suo reato”, scrivevano i suoi compagni di redazione. E hanno ragione. Andrea non era la sua condanna. Era un insegnante, un giornalista dentro un carcere, un uomo che aveva scelto di rinascere dalle sue ceneri. Era una Fenice anche lui. E la sua morte dovrebbe inchiodarci tutti alle nostre responsabilità.

Non possiamo dire “Amen” e voltare pagina. Non possiamo archiviare Vespino come un numero, come un “altro morto in carcere”. Perché ogni morto in carcere è un fallimento dello Stato, della giustizia, della nostra superiorità civile o presunta tale.

Non si può morire così, a 47 anni, dopo una settimana di febbre ignorata. Non si può morire senza che nessuno ti prenda per mano e dica: ti portiamo in ospedale, ci pensiamo noi. Non si può morire tra una Tachipirina e un Brufen.

Per questo oggi bisogna ricordarlo. Bisogna raccontare la sua storia, ripeterla, gridarla. Perché la sua morte non sia solo la fine di un uomo, ma l’inizio di una coscienza....

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