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È morto Alberto Franceschini, fondatore delle Brigate Rosse: uno dei volti simbolo della lotta armata

Ex militante della Fgci, fondatore delle BR con Curcio e Cagol, fu condannato per omicidi, sequestri e banda armata. Dopo 18 anni di carcere si dissociò dal terrorismo

Alberto Franceschini

Alberto Franceschini aveva 78 anni

Si è spento l'11 aprile scorso, a 78 anni, Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate Rosse. La notizia della sua morte è trapelata solo nelle ultime ore, chiudendo simbolicamente una delle pagine più oscure e drammatiche della storia italiana contemporanea.

Nato a Reggio Emilia da una famiglia di tradizione comunista, Franceschini ha sempre rivendicato che la sua scelta rivoluzionaria affondasse le radici in quella tradizione. “Un filo rosso che dalla Resistenza arrivava alla lotta armata” – così aveva descritto la propria traiettoria politica, senza mai rinnegare del tutto il percorso compiuto.

Entrato giovanissimo nella Federazione Giovanile Comunista Italiana (Fgci), Franceschini si distaccò ben presto dalla linea ufficiale del PCI, rimanendo deluso da alcuni episodi vissuti in prima persona. Tra questi, un duro scontro con il servizio d’ordine comunista durante una manifestazione contro la base Nato di Miramare di Rimini nel 1969. Da quel momento, il distacco dal comunismo istituzionale fu irreversibile.

Nel 1970, a Milano, Franceschini aderì alla lotta armata e, insieme a Renato Curcio e Mara Cagol, fondò le Brigate Rosse, che nei decenni successivi avrebbero scatenato una delle stagioni più tragiche di violenza politica in Italia.

Nel febbraio 1971, rifiutò di presentarsi al servizio militare e scelse la clandestinità, diventando di fatto il primo brigatista latitante.

Le Brigate Rosse, sotto la sua guida, passarono rapidamente dalla fase della propaganda armata ai sequestri, agli attentati, agli omicidi. Franceschini venne ritenuto responsabile, con sentenze definitive, di numerosi atti terroristici. Tra questi, l'uccisione di due militanti del Movimento Sociale Italiano a Padova nel giugno del 1974 e il sequestro del giudice Mario Sossi a Genova, uno dei primi grandi casi mediatici del terrorismo italiano.

Condannato complessivamente a oltre sessant'anni di carcere per duplice omicidio, sequestro di persona, costituzione di banda armata, associazione sovversiva, oltraggio a pubblico ufficiale e rivolta carceraria, Franceschini trascorse lunghi anni nelle carceri speciali.

Il suo arresto avvenne l'8 settembre 1974, insieme a Curcio, grazie alla collaborazione di Silvano Girotto, detto "Frate Mitra", un ex sacerdote infiltratosi nell’organizzazione.

Dopo essere stato uno dei brigatisti più attivi anche all'interno del carcere – aderendo persino al Partito Guerriglia fondato da Giovanni Senzani dopo la scissione interna alle Br – Franceschini, nel 1982, si dissociò ufficialmente dalla lotta armata. Pur senza rinnegare del tutto il suo passato, prese le distanze dalla violenza politica e avviò un lungo percorso di rielaborazione critica della propria storia.

Nel 1987 ottenne i primi permessi premio, poi i domiciliari e infine, nel 1992, uscì definitivamente dal carcere, dopo 18 anni di reclusione.

Una volta tornato in libertà, si dedicò ad attività sociali e culturali, collaborando con l'Arci Ora d'Aria, impegnandosi anche nel campo del reinserimento dei detenuti.

Nonostante il silenzio mantenuto per anni, Franceschini è tornato a far parlare di sé nel febbraio 2024, quando venne identificato tra le persone che si erano riunite nei giardini dedicati ad Anna Politkovskaja a Milano per commemorare Alexei Navalny, l’oppositore russo morto in circostanze sospette in un carcere siberiano. Una presenza, quella di Franceschini, che scatenò un’ondata di polemiche politiche e mediatiche, riaprendo vecchie ferite mai del tutto rimarginate.

FRANCESCHINI NEL marzo 2003 ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO 'IL MISTERIOSO INTERMEDIARIO-IGOR MARKEVIC E IL CASO MORO

Se Alberto Franceschini è stato per anni uno dei simboli della radicalizzazione violenta della sinistra extraparlamentare, la sua figura oggi divide ancora l'opinione pubblica. Da un lato il riconoscimento del percorso di dissociazione e del contributo alla riflessione sugli errori del passato, dall’altro il peso di un'eredità segnata da sangue e dolore, che non può essere cancellata.

La sua morte chiude un'epoca, ma lascia aperti molti interrogativi: sulla capacità della società italiana di confrontarsi con i propri fantasmi, e sul confine fragile tra idealismo politico e fanatismo.

Negli ultimi anni, Franceschini aveva partecipato a diversi dibattiti pubblici, prendendo parte a incontri e conferenze sulla memoria degli "anni di piombo". Intervistato nel 2021 dal quotidiano "Domani", aveva dichiarato: "Il grande errore nostro fu pensare che la violenza fosse uno strumento per cambiare la società. Abbiamo tradito noi stessi e i nostri ideali."

Una presa di coscienza che, pur tardiva, è stata riconosciuta da diversi osservatori come un segnale importante, in una stagione in cui il rischio di rimozione o di banalizzazione della violenza politica è ancora molto presente.

Nonostante la sua dissociazione, Franceschini non accettò mai di entrare formalmente nei percorsi di pentitismo, rifiutando di accusare altri brigatisti. Un aspetto che lo differenziò nettamente da figure come Patrizio Peci, il primo grande pentito delle Br.

Oggi, il suo nome resterà legato a doppio filo alla stagione tragica degli anni di piombo, come uno dei fondatori di un'organizzazione che segnò, nel bene e nel male, la storia della Repubblica.

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