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Connettività cerebrale: la "terza via" che potrebbe rivoluzionare la lotta all'Alzheimer

Uno studio propone la connettività neurale come nuova chiave per valutare e sviluppare terapie

La terza via per l'Alzheimer

La terza via per l'Alzheimer: ripristinare l'equilibrio delle reti neurali

La sfida dell’Alzheimer potrebbe richiedere un cambio di prospettiva radicale. Non più soltanto la caccia alle placche amiloidi o la misurazione dei sintomi clinici, ma un’analisi più profonda e complessa del modo in cui il cervello comunica con se stesso. È questa la direzione indicata da un nuovo studio pubblicato sulla rivista Brain, frutto di una collaborazione internazionale guidata dall’Università di Padova, insieme al Centro Ospedaliero Universitario di Losanna e a Chiesi Farmaceutici. Una ricerca che propone la connettività cerebrale come paradigma centrale per valutare l’efficacia dei farmaci e aprire la strada a nuove terapie mirate.

L’idea di fondo è tanto semplice quanto ambiziosa: per contrastare davvero una malattia neurodegenerativa come l’Alzheimer non basta intervenire su una singola proteina o su un singolo bersaglio biologico. È necessario capire come dialogano le diverse aree del cervello, come cambiano nel tempo le reti neurali e in che modo queste alterazioni anticipano, accompagnano o determinano il declino cognitivo.

Per decenni, il destino biologico dell’Alzheimer è apparso quasi segnato. I farmaci disponibili agivano prevalentemente sui sintomi, cercando di rallentare la perdita di memoria e di preservare temporaneamente alcune funzioni cognitive. Un approccio palliativo, utile ma incapace di modificare in modo sostanziale il decorso della malattia. Il 2024 ha però segnato una svolta importante, con l’autorizzazione europea di due anticorpi monoclonali diretti contro la proteina β-amiloide, capaci di rallentare la progressione del declino cognitivo in alcuni pazienti.

Questi farmaci agiscono riducendo la formazione e l’accumulo delle placche amiloidi nel cervello, uno dei segni distintivi della patologia. Tuttavia, la loro efficacia è fortemente legata a una diagnosi molto precoce, quando il danno neuronale è ancora limitato. Inoltre, come sottolineano i ricercatori padovani, la sola riduzione dell’amiloide rappresenta un risultato biologicamente modesto, insufficiente a spiegare e controllare la complessità dell’Alzheimer.

È proprio da questo limite che nasce la proposta di un approccio alternativo. Secondo lo studio, le alterazioni delle reti cerebrali non sono soltanto una conseguenza della malattia, ma veri e propri marcatori precoci, sensibili e potenzialmente modificabili. Le connessioni tra le diverse aree del cervello iniziano a cambiare molto prima che i sintomi diventino evidenti, offrendo una finestra di osservazione e di intervento più ampia.

La connettività cerebrale viene descritta come un sistema dinamico, non statico. È il risultato dell’interazione continua tra fattori genetici e ambientali, ed è profondamente individuale. Ogni cervello, anche a parità di diagnosi, mostra schemi di connessione differenti. Ignorare questa variabilità significa rinunciare a una parte essenziale dell’informazione biologica necessaria per comprendere la malattia.

Lo studio suggerisce quindi di superare la visione riduzionista, che si concentra su singoli biomarcatori, e di adottare un modello integrato. Un modello che, oltre alle placche amiloidi e ai sintomi clinici, includa misurazioni dettagliate della connettività funzionale e strutturale del cervello. Solo così, sostengono i ricercatori, è possibile ottenere un quadro biologicamente fondato e clinicamente significativo dell’Alzheimer.

Questa prospettiva apre scenari nuovi anche sul fronte terapeutico. Se la malattia viene interpretata come una disfunzione dell’ecosistema cerebrale nel suo insieme, allora le terapie del futuro potrebbero non limitarsi a rimuovere una proteina tossica, ma mirare a ripristinare o modulare le reti neurali. Un cambiamento che potrebbe portare a trattamenti più personalizzati, adattati alle caratteristiche specifiche del cervello di ciascun paziente.

La cosiddetta “terza via”, evocata dallo studio, si colloca proprio tra i due approcci tradizionali: da un lato la riduzione dei segni patologici, dall’altro il trattamento dei sintomi. Integrare la misurazione della connettività cerebrale significa disporre di uno strumento in grado di valutare in modo più preciso se un farmaco stia realmente modificando il funzionamento del cervello, e non solo uno dei suoi prodotti di scarto.

Dal punto di vista clinico, questo paradigma potrebbe migliorare anche la valutazione dell’efficacia dei farmaci nei trial sperimentali. Oggi molti studi falliscono perché non riescono a dimostrare benefici significativi sui sintomi in tempi relativamente brevi. Analizzare come cambiano le reti cerebrali potrebbe offrire indicatori più sensibili e tempestivi, permettendo di individuare segnali positivi prima che il miglioramento clinico diventi evidente.

L’Alzheimer resta una delle grandi emergenze sanitarie dei prossimi decenni, con un impatto crescente su sistemi sanitari, famiglie e società. In questo contesto, lo studio guidato dall’Università di Padova non promette soluzioni immediate, ma propone un cambio di paradigma che potrebbe rivelarsi decisivo. Guardare al cervello non come a un insieme di lesioni isolate, ma come a una rete complessa di connessioni, significa avvicinarsi di più alla natura reale della malattia.

La strada verso terapie realmente efficaci è ancora lunga. Ma comprendere come il cervello comunica potrebbe essere il passo necessario per superare i limiti attuali e aprire una nuova fase nella lotta contro l’Alzheimer, fondata non solo sulla rimozione dei danni, ma sul tentativo di ricostruire l’equilibrio perduto delle reti neurali.

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