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All'ospedale di Chivasso, condizioni da Terzo mondo: lo Spresal dà ragione al sindacato

Dopo la denuncia dell’estate, i controlli dello Spresal certificano ciò che il sindacato sosteneva da mesi: nel locale lavaggio dell’ospedale di Chivasso l’impianto di aspirazione e condizionamento non funzionava

All'ospedale di Chivasso, condizioni da Terzo mondo: lo Spresal dà ragione al sindacato

Francesco Sciarra Uil

Lo Spresal arriva, controlla e – nero su bianco – dà ragione al sindacato. A distanza di mesi dalla denuncia, l’organo di vigilanza dell’ASL di Alessandria conferma ciò che le lavoratrici e la UILTuCS sostenevano da tempo: l’impianto di aspirazione e condizionamento del locale lavaggio di via Regis 42, a Chivasso, non funzionava. Punto.

Non è una valutazione politica, non è una polemica sindacale, non è un’opinione. È l’esito ufficiale degli accertamenti avviati a seguito della segnalazione arrivata il 21 luglio, nel pieno di uno scontro che definire “duro” è persino riduttivo.

I tecnici dello Spresal hanno ispezionato i locali utilizzati dalla Dussmann Service Srl per il servizio di ristorazione ospedaliera e hanno riscontrato il mancato funzionamento dell’impianto di aspirazione destinato all’allontanamento dei vapori prodotti dalla lavastoviglie industriale. Esattamente quel “forno infernale” denunciato dal sindacato, quel locale lavaggio privo di adeguata climatizzazione in cui le operatrici erano costrette a lavorare in condizioni al limite della sopportazione fisica.

Una conferma pesante, che assume ancora più valore perché arriva a valle di mesi di negazioni, minimizzazioni e scaricabarile. E arriva dopo che, solo grazie alla pressione sindacale, qualcosa era già cambiato. Non a caso, nel verbale Spresal non compare alcun rilievo sui carrelli termici. Il motivo è semplice: al momento dell’ispezione, Dussmann aveva già adeguato l’organizzazione del lavoro, introducendo la movimentazione dei carrelli con due operatori, come richiesto e preteso dalla UILTuCS dopo l’infortunio del 23 luglio.

Una misura che l’azienda aveva sempre sostenuto essere inutile, impraticabile, eccessiva. Una misura che, improvvisamente, è diventata possibile. Guarda caso.

Vale la pena ricordarlo, perché la memoria – in queste vicende – non è un optional. Tutto era esploso dopo l’ennesimo infortunio a una lavoratrice interinale, rimasta con la mano schiacciata contro lo stipite dell’ascensore mentre cercava di manovrare da sola un carrello pesante e ingombrante. A quel punto il sindacato aveva detto basta: da quel giorno i carrelli non si muovono più se non in due. Una decisione unilaterale, netta, irrevocabile.

La risposta di Dussmann era stata sconcertante. In una nota formale, l’azienda aveva provato a difendersi attribuendo alla lavoratrice stessa la responsabilità dell’accaduto, colpevole – secondo l’azienda – di non aver seguito correttamente le procedure operative. Una linea difensiva che aveva scatenato la reazione durissima della UILTuCS Ivrea e Canavese e del suo segretario Francesco Sciarra, che aveva parlato apertamente di inerzia, superficialità e negligenza.

Oggi, con l’esito degli accertamenti Spresal, quella ricostruzione aziendale si sbriciola definitivamente. Perché se è vero – come è vero – che l’impianto non funzionava, allora le condizioni di lavoro denunciate erano reali. Non percezioni. Non esagerazioni. Non strumentalizzazioni.

Lo Spresal ha contestato formalmente la violazione della normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e ha adottato un provvedimento di prescrizione: l’azienda dovrà eliminare le irregolarità e, in caso di inadempienza, la segnalazione finirà in Procura.

Insomma, la vicenda che qualcuno sperava di archiviare come “polemica sindacale” entra a pieno titolo nel terreno delle responsabilità oggettive. E restituisce dignità a una battaglia condotta in difesa di lavoratrici spesso invisibili, spesso precarie, spesso lasciate sole a spingere carrelli troppo grandi, in spazi troppo stretti, in ambienti troppo caldi.

Ancora una volta, sono i fatti a parlare. E dicono che la denuncia dell’estate aveva fondamenta solide. Dicono che la sicurezza non è un optional. Dicono che, senza la pressione del sindacato, probabilmente oggi staremmo raccontando l’ennesimo infortunio, non l’esito di un controllo.

Insomma. Le carte hanno dato ragione a chi stava nei corridoi e nei locali lavaggio. Non a chi si rifugiava dietro procedure e dichiarazioni di conformità.
E questa, più di ogni commento, è la vera notizia.

Luigi Vercellino

Luigi Vercellino, direttore generale Asl To4

Direttori di che?

Ci sono silenzi che pesano più di mille dichiarazioni. E poi ci sono silenzi che, col tempo, diventano responsabilità.

Quello del direttore generale Luigi Vercellino, nell’estate appena passata, appartiene senza dubbio alla seconda categoria. Perché mentre all’ospedale di Chivasso una lavoratrice si infortunava, mentre il sindacato denunciava condizioni di lavoro da Terzo mondo, mentre si parlava apertamente di calore insopportabile, vapori, locali lavaggio trasformati in forni, dal vertice dell’ASL non arrivava nemmeno un “beh’”. Neppure una parola. Neppure un sopralluogo. Neppure il dubbio che, forse, qualcosa non stesse funzionando.

Ora arriva lo Spresal (non quello dell'Asl To4 ma di Alessandria), controlla e certifica. L’impianto di aspirazione e condizionamento non funzionava. Non era una suggestione. Non era un’esagerazione sindacale. Non era propaganda. Era realtà. Una realtà che chi dirige una sanità pubblica avrebbe dovuto almeno voler vedere.

E qui sta il punto. Perché nessuno pretende che un direttore generale diventi un tecnico degli impianti o un ispettore del lavoro. Ma esiste una cosa antica, che non è scritta in nessun decreto: il buon senso. E ci sono situazioni che non hanno bisogno di tre verbali, due relazioni e una prescrizione per essere prese sul serio. A volte basta ascoltare. A volte basta andare a vedere. A volte basta chiedersi: possibile che chi lavora lì dentro stia esagerando?

Invece no. Meglio il silenzio. Meglio non esporsi. Meglio lasciare che lo scontro resti confinato tra azienda appaltatrice e sindacato, come se la stazione appaltante fosse un soggetto neutro, distante, estraneo. Come se l’ospedale non fosse casa propria. Come se le persone che ci lavorano non fossero anche responsabilità di chi lo governa.

Il risultato, oggi, è paradossale ma chiarissimo: serve lo Spresal per certificare ciò che era sotto gli occhi di tutti. Serve un controllo formale per dire che sì, dentro quel locale lavaggio si lavorava in condizioni inaccettabili. Serve una prescrizione per dare dignità a una denuncia che, mesi fa, era stata trattata come fastidio.

E allora la domanda non è più se il sindacato avesse ragione. Quella risposta ormai è scritta nero su bianco. La vera domanda è un’altra: dov’era la direzione generale mentre tutto questo accadeva? Dov’era Luigi Vercellino quando una lavoratrice si faceva male? Dov’era quando si parlava di vapori, calore, carrelli ingestibili, locali invivibili? Davvero nessuno ha pensato che valesse la pena scendere un piano, attraversare un corridoio e guardare?

Perché la sanità pubblica non è fatta solo di bilanci, atti aziendali e conferenze stampa. È fatta di persone che lavorano. Di mani che spingono carrelli. Di corpi che resistono al caldo. Di schiene che reggono turni impossibili. E quando chi sta al vertice sceglie il silenzio, quel silenzio diventa una presa di posizione.

Insomma. Ci sono cose che non hanno bisogno di verifiche infinite. A volte basta il senno. E quando il senno manca, arrivano le carte. Arrivano i controlli. Arrivano le prescrizioni. Ma a quel punto, il danno – umano, prima ancora che organizzativo – è già stato fatto... Per come siamo fatti noi basterebbe questo per chiedere le dimissioni ad un direttore, ma non lo facciamo...

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