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23 Dicembre 2025 - 22:34
C’è un filo sottile che attraversa il tempo, i mari e le generazioni. Un filo che parte dai porti di Genova e Le Havre, sale sui bastimenti carichi di speranze di inizio Novecento e arriva fino ai pullman attraversati di nascosto, ai barconi nel Mediterraneo, ai confini europei di oggi. È quel filo che Enzo Sapia raccoglie e tende nelle oltre 230 pagine del suo nuovo romanzo Oltre il mare c’era la Merica, un libro che non si limita a raccontare l’emigrazione, ma la fa sentire addosso, sulla pelle, nello stomaco.
Perché l’emigrazione non è mai solo una parola. È una valigia troppo leggera, un addio che non sai se sarà definitivo, un viaggio che cambia tutto. Cambia chi parte, cambia chi resta. E cambia anche il modo in cui una comunità si guarda allo specchio. Nel romanzo di Sapia, i “corsi e ricorsi storici” non sono un esercizio letterario, ma un colpo allo stomaco: ieri erano i piemontesi diretti verso “la Merica”, oggi sono uomini e ragazzi che attraversano l’Africa e il Mediterraneo inseguendo la stessa illusione, la stessa promessa di riscatto.

La scintilla del libro nasce quasi per caso, da una conversazione quotidiana, come spesso accade alle storie più vere. «L’idea del libro nasce parlando con Tiziana Bertoglio, titolare di un negozio di giocattoli a Castellamonte», racconta Enzo Sapia, insegnante elementare in pensione, per anni corrispondente di un settimanale locale e oggi in redazione alla rivista I Quaderni di Terra Mia. È lei a parlargli del nonno paterno, Pietro, partito bambino, a soli sette anni, per lavorare come spazzacamino in Francia, passando per la Galisia. A diciannove anni il grande salto: l’America. Non da Genova, perché “sotto naia”, ma da Le Havre, raggiunta attraversando il Moncenisio. Uno dei primi emigranti italiani nel continente americano.
La storia di Pietro, leggermente romanzata ma saldamente ancorata alla realtà, diventa una delle colonne portanti del libro. Accanto a lui, però, Sapia sceglie di raccontare anche un’altra emigrazione, quella di oggi. Quella di Habib e Karim, due ragazzi marocchini che a dodici anni si nascondono nel portabagagli di un pullman per raggiungere la Spagna, vengono scoperti, resistono, ripartono. Arrivano in Italia, in Canavese. Lavorano. Si integrano. Vivono. Due storie lontane nel tempo, ma incredibilmente simili nella sostanza.
«È stato quasi naturale collegare queste storie», spiega l’autore. «Sono nate in contesti storici diversi, ma hanno un denominatore comune: l’emigrazione, che c’è sempre stata, anche quando veniva osteggiata». Nelle pagine del romanzo emergono le stesse dinamiche, gli stessi sacrifici, la stessa necessità di adattarsi, di accettare i lavori più umili pur di sopravvivere e inseguire un sogno. Pietro, Habib e Karim camminano su strade diverse, ma con lo stesso peso sulle spalle.
Anche la copertina del libro racconta una storia, e lo fa in silenzio. Un’immagine d’epoca, concessa dal Museo dell’Emigrazione di Lucca e dall’Archivio Fondazione Paolo Cresci, che immortala una nave mentre si allontana dal porto. «All’epoca chi saliva a bordo portava con sé un gomitolo di lana», racconta Sapia. «Ne teneva il capo e lo lanciava sulla banchina, dove un familiare lo afferrava. Il filo si tendeva sempre di più, finché non si spezzava. Era l’ultimo legame con la terra ferma». Un’immagine potente, simbolica, che racchiude in uno scatto tutto il senso dell’emigrazione: partire significa anche spezzare, anche se fa male.
In quarta di copertina, invece, c’è un disegno che parla di memoria e futuro insieme. Lo ha realizzato Niccolò Silotto, dodici anni, nipote dell’autore. Ha disegnato la Gascogne, la nave che portò Pietro Bertoglio in America. Un passaggio di testimone silenzioso, ma eloquente.
Oltre il mare c’era la Merica è anche un libro profondamente personale. Enzo Sapia lo dedica al padre, alla madre e al fratello, con cui ha vissuto in prima persona l’emigrazione negli anni Sessanta, dal Sud al Piemonte. E mentre questo romanzo prende il largo, l’autore guarda già avanti: una storia minimalista su Castellamonte, sui suoi personaggi, sul Carnevale, sulla Mostra della Ceramica, sulla vita di una città vista attraverso la gente comune. E poi un nuovo progetto, ancora in gestazione, su Antonio Lebolo, figura storica di cui si sa ancora troppo poco.
Insomma, questo non è solo un libro da presentare. È un libro da ascoltare. Perché parla di noi, anche quando facciamo finta di non riconoscerci in quelle partenze, in quelle valigie, in quei fili che si spezzano mentre una nave si allontana dal porto.
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