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Chivasso, dicembre 1943: quando la Resistenza si fermò a pensare il futuro

Nella casa sorvegliata di una città occupata, tra paura e coraggio, uomini delle valli alpine scrissero la Carta che sfidava il centralismo e immaginava un’Italia diversa, libera e autonoma

Chivasso, dicembre 1943: quando la Resistenza si fermò a pensare il futuro

Chivasso, 19 dicembre 1943: quando la Resistenza si fermò a pensare il futuro

Il 19 dicembre 1943 l’Europa non è ancora un luogo, ma una ferita. Non lo è politicamente, non lo è moralmente. È un continente che ha smesso di riconoscersi, diviso tra eserciti in marcia e popolazioni stremate, tra ideologie che promettono salvezza e producono solo macerie. L’Italia vive uno dei suoi momenti più bassi: spezzata, occupata, commissariata, con un Nord sotto controllo nazifascista e un Sud che fatica a rialzarsi. In questo scenario, mentre la guerra sembra assorbire ogni energia e ogni pensiero, a Chivasso accade qualcosa di diverso. Qualcosa che non fa rumore, che non produce proclami, che non cerca consenso immediato. Un tentativo di ragionare sul futuro mentre il presente brucia.

Chivasso non è una capitale, non è un centro di potere, non è un simbolo della Resistenza armata. È una città di passaggio, una soglia. Porta del Monferrato e del Canavese, luogo di transito tra pianura e montagna. Proprio per questo diventa il punto d’incontro ideale. Non troppo esposta, non troppo periferica. Geograficamente equidistante tra la Valle d’Aosta e la Val Pellice, ma anche legata da relazioni personali che contano, perché in clandestinità nulla è casuale. Le reti familiari, le amicizie, le fiducie contano più dei luoghi ufficiali.

IN FOTO Palazzo Tesio a Chivasso, nel quale fu stipulata la dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine.

IN FOTO Palazzo Tesio a Chivasso, nel quale fu stipulata la dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine.

L’incontro avviene nelle stanze di Palazzo Tesio, abitazione del geometra valdese Edoardo Pons. Parlare di “convegno” potrebbe sembrare eccessivo, se si pensa ai contesti accademici in cui normalmente si usa questa parola. Ma proprio quel termine restituisce la natura dell’incontro. Non è una riunione improvvisata, non è un passaggio occasionale. È un confronto pensato, preparato, discusso a lungo nei mesi precedenti. È un momento in cui uomini che vivono già nella clandestinità decidono di fermarsi, di sedersi attorno a un tavolo, di parlare non di come vincere la guerra, ma di come evitare che una guerra simile possa ripetersi.

Le porte sono chiuse, le finestre schermate. Non per teatralità, ma per prudenza. Fuori, la presenza fascista è costante. Le caserme sono vicine, le pattuglie non mancano. Ogni arrivo è scaglionato, ogni volto è controllato, ogni rumore viene ascoltato con attenzione. Non ci sono armi sul tavolo, ma il rischio è lo stesso. Forse maggiore, perché qui non si complotta contro un presidio militare, ma contro un’idea di Stato che ha prodotto il fascismo e potrebbe, se non viene ripensata, produrne un altro.

I partecipanti arrivano da storie diverse, ma con una consapevolezza comune. Émile Chanoux è presente. Notaio, intellettuale, figura centrale della Resistenza valdostana, è già un uomo braccato. Sa di esserlo. La sua presenza ha il peso delle cose definitive. Pochi mesi dopo verrà arrestato e morirà nel carcere fascista, ucciso durante l’interrogatorio. A Chivasso porta una riflessione maturata da anni: lo Stato centralista non è neutro, non è innocente. Ha soffocato le autonomie, cancellato le lingue, mortificato le comunità locali. Il fascismo non è stato un incidente, ma il prodotto estremo di quel sistema.

Con lui c’è Ernest Page, avvocato, democratico-cristiano, a dimostrazione che l’incontro non è settario, non è chiuso in una sola cultura politica. Mancano Lino Binel, appena arrestato dalla polizia politica e destinato alla deportazione, e Federico Chabod, storico di fama europea, che non può essere presente ma fa pervenire un documento scritto. Per le Valli valdesi intervengono Osvaldo Coïsson e Gustavo Malan, giunti da Torre Pellice, insieme ai professori Giorgio Peyronel e Mario Alberto Rollier, accademici che da tempo riflettono sul federalismo e che guardano all’Europa non come a un insieme di Stati sovrani chiusi, ma come a uno spazio politico possibile.

Tutti appartengono al Partito d’Azione, con l’eccezione di Page. Chanoux non è formalmente iscritto, ma ne condivide l’impianto ideale. Non si tratta di una scelta di schieramento, ma di un punto di incontro tra sensibilità diverse, unite dalla convinzione che il problema non sia solo il fascismo, ma ciò che lo ha reso possibile.

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Si discute a lungo. Non c’è fretta. Il tempo, quel giorno, sembra sospeso. Il confronto è serio, a tratti duro, sempre misurato. Si parla di centralismo, di nazionalismi esasperati, di come in trent’anni l’Europa sia precipitata in due guerre mondiali. Si parla del tentativo del Ventennio di sradicare ogni legame culturale con il territorio, di italianizzare i nomi, le lingue, le identità. Le valli alpine diventano il paradigma di un problema più grande: territori governati da lontano, considerati marginali, ridotti a periferia amministrativa e culturale.

Da questa analisi nasce l’esigenza di mettere nero su bianco un’idea diversa di Stato. Non una fuga in avanti, non un sogno astratto, ma una proposta concreta. Così prende forma la Carta di Chivasso, o Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine, firmata alla presenza dei rappresentanti del Cln chivassese, Mario Viora e Augusto Matteoda. Un documento che colpisce per la sua lucidità, se si considera il contesto in cui nasce. Non promette rivoluzioni immediate, ma indica una direzione.

La Carta parla di autonomia amministrativa, culturale, linguistica. Rivendica il rispetto delle minoranze in ambito economico-sociale. Difende il diritto delle comunità a usare la propria lingua negli atti pubblici e privati, a insegnarla nelle scuole, a trasmetterla. Non lo fa in nome di un localismo chiuso, ma dentro una visione più ampia, federalista ed europeista. L’autonomia, per figure come Rollier, non è un fine in sé, ma una componente di un progetto politico più vasto, che guarda a un’Europa federale, capace di superare i nazionalismi che hanno devastato il continente.

La questione linguistica occupa un posto centrale. Non per nostalgia, ma per giustizia. L’uso della lingua francese in Piemonte ha una storia lunga quattro secoli. Dal 1536, quando la Congrégation des trois états sostituisce il latino con il francese negli atti amministrativi, fino al comandamento di Emanuele Filiberto del 1561, che rende il francese lingua obbligatoria nei territori dei suoi Stati. Con l’Unità d’Italia e la cessione di Savoia e Nizza alla Francia, i valdostani e i valdesi restano gli unici regnicoli di lingua francese. Il nuovo Stato non è più bilingue. In Parlamento si parla solo italiano. La diversità linguistica diventa un problema da gestire, non un valore da tutelare.

Il fascismo radicalizza questa impostazione. Combatte ogni cultura alternativa a quella nazionalista. Italianizza i toponimi, reprime le differenze, discrimina le identità locali. È in questo contesto che la richiesta di bilinguismo avanzata dalla Carta assume un valore politico profondo. Non è una rivendicazione folkloristica, ma un’affermazione di diritti fondamentali. Chanoux e Page lo scrivono con chiarezza: parlare pubblicamente, insegnare nelle scuole, usare la propria lingua negli atti pubblici e privati è un diritto essenziale dell’uomo.

La Carta non nasce dal nulla. È il punto di arrivo di un lungo percorso. Già nel 1941, nelle riunioni antifasciste nello studio aostano di Chanoux, si discute del rinnovamento dello Stato italiano dopo la guerra. Si guarda al modello svizzero, a uno Stato federale capace di riconoscere le autonomie senza mettere in discussione l’unità. Anche Chabod, nel documento inviato a Chivasso, afferma con forza la volontà di restare uniti all’Italia libera di domani, chiedendo però autonomia amministrativa e una particolare autonomia culturale e linguistica, con pieno rispetto della bilinguità.

Il testo definitivo della Carta è il risultato di più stesure preparatorie, elaborate da Rollier, Chabod e Peyronel. Coïsson e Malan arrivano all’incontro con una bozza preliminare scritta in francese, in cui si denuncia l’oppressione delle vallate alpine, il malgoverno, la distruzione dei centri vivi della cultura locale, dei dialetti, dei patrimoni. Nulla è improvvisato. Tutto è pensato.

Quando l’incontro si conclude, non c’è alcuna illusione immediata. Nessuno pensa che quel documento cambierà da solo il corso della guerra. Ma tutti sanno che ha piantato un seme. La Carta comincia a circolare clandestinamente. Viene letta, discussa, criticata, difesa. Quasi un anno dopo, il 6 ottobre 1944, il Clnai fa propria quella linea nel Manifesto ai valdostani, impegnandosi a restaurare i diritti violati attraverso un regime di ampia autonomia linguistica, culturale e amministrativa.

Il dopoguerra sarà tutt’altro che semplice. Il separatismo valdostano emergerà con forza, alimentato anche dalle politiche oppressive del Ventennio. Nel maggio e giugno del 1945, mentre gli Alleati sono ancora presenti e le infrastrutture sono distrutte, tra Carema e Pont-Saint-Martin compare una barra identica a quelle di confine, posta dal movimento separatista. La tensione cresce, diventa internazionale, coinvolge la Francia e gli Stati Uniti. Solo la diplomazia eviterà uno scontro aperto. Alla fine, la strada dell’autonomia prevarrà.

Ci vorranno decenni perché le intuizioni della Carta trovino piena attuazione. L’articolo 6 della Costituzione, che tutela le minoranze linguistiche, nasce anche da quell’esperienza. Solo nel 1999 una legge dello Stato darà finalmente applicazione a quel principio. Mezzo secolo dopo Chivasso.

Rileggere oggi quella storia significa riconoscere che, mentre tutto sembrava crollare, qualcuno ebbe il coraggio di pensare con lucidità. Senza enfasi, senza illusioni. A Chivasso la Resistenza non fu solo lotta armata. Fu anche riflessione, progetto, responsabilità. Fu la scelta, rara e difficile, di immaginare uno Stato migliore mentre quello esistente mostrava il suo volto peggiore. E forse è per questo che quella pagina continua a parlare, con voce bassa ma ostinata, anche oggi.

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