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Kamala Harris prepara il ritorno? Sondaggi, potere nero e paure dei democratici verso il 2028

Tra segnali pubblici, numeri favorevoli e dubbi sull’eleggibilità, l’ex vicepresidente si muove da frontrunner senza dichiararsi, mentre il Partito democratico resta sospeso in attesa della sua scelta

Kamala Harris prepara il ritorno? Sondaggi, potere nero e paure dei democratici verso il 2028

Kamala Harris prepara il ritorno? Sondaggi, potere nero e paure dei democratici verso il 2028

Una sala d’albergo di Los Angeles, luci bianche che si riflettono sul velluto blu. Alla riunione invernale del Comitato Nazionale Democratico (Democratic National Committee – DNC), durante un brindisi informale, circola una battuta che non passa inosservata. Il presidente del partito, Ken Martin, presenta Doug Emhoff come l’ex “second gentleman” e aggiunge, sorridendo, “forse il futuro ‘first gentleman’”. Non è un endorsement ufficiale, ma nemmeno una frase casuale. In platea il riferimento è chiaro: Kamala Harris. E il messaggio che in queste settimane l’ex vicepresidente sta facendo filtrare verso potenziali rivali e dirigenti di partito è altrettanto chiaro: la possibilità di una candidatura nel 2028 non è affatto archiviata. È una possibilità reale, strutturata, credibile.

Dopo mesi di basso profilo, Harris ha aumentato visibilmente la sua presenza pubblica. A Los Angeles ha parlato ai quadri del DNC con toni più duri del passato, criticando lo “status quo” e, fatto insolito per una dirigente democratica di primo piano, chiamando in causa “entrambi i partiti”. È un cambio di registro rispetto alla linea di totale lealtà all’amministrazione Biden che aveva caratterizzato la fase precedente al voto del 2024. Nello stesso periodo ha partecipato al gala degli United Farm Workers, storico sindacato dei lavoratori agricoli, e ha intensificato le apparizioni mediatiche, fino ad annunciare una prossima partecipazione a “Jimmy Kimmel Live!”. La strategia appare evidente: ricostruire visibilità nazionale senza annunciare formalmente una candidatura.

kamala harris

Il filo conduttore è la narrazione del dopo-sconfitta e la promessa di una leadership più attenta e meno rituale. In questo quadro si inserisce anche il tour del libro “107 Days”, in cui Harris ripercorre le settimane finali della campagna del 2024. Non è solo un’operazione editoriale. È diventato uno strumento politico itinerante, con sale piene e nuove tappe già fissate nel 2026, tra cui Oakland il 3 marzo e Sacramento il 4 aprile. Pubblicamente l’ex vicepresidente continua a evitare risposte dirette sulle sue intenzioni, ma il messaggio implicito è difficile da ignorare.

A spiegare perché il partito ascolti con attenzione non è solo il posizionamento mediatico, ma anche i numeri. Nei sondaggi sulle primarie democratiche del 2028, Harris resta in testa. Le rilevazioni di Morning Consult, uno dei pochi istituti che monitora con continuità l’elettorato democratico, la collocano stabilmente davanti ai possibili rivali. A novembre 2025, in uno scenario con più candidati, Harris è data al 29%, contro il 20% del governatore della California, Gavin Newsom. Seguono Pete Buttigieg all’8% e Alexandria Ocasio-Cortez al 7%. È una tendenza coerente con le rilevazioni precedenti, che tra 2024 e 2025 la vedevano prima sopra il 40% e poi intorno al 36%.

Altri sondaggi confermano il quadro. A luglio 2025, Echelon Insights la indica come principale favorita al 26%, con Buttigieg all’11% e Newsom al 10%, unici altri nomi in doppia cifra. Tutti gli altri potenziali candidati, da Cory Booker a Tim Walz, restano più indietro. È vero che si tratta di una fase molto preliminare e che le primarie si vincono Stato per Stato, non nei sondaggi nazionali. Ma per chi deve decidere se entrare o meno in corsa, la posizione di Harrisrappresenta oggi il principale dato politico.

Un elemento chiave di questo vantaggio è il suo rapporto con l’elettorato afroamericano. È un bacino che nelle ultime primarie democratiche si è rivelato decisivo, soprattutto negli Stati del Sud. Secondo Morning Consult, anche nel 2025Harris mantiene un margine molto ampio tra gli elettori democratici neri. In agosto, il confronto con Newsom la vede avanti 45% a 9%. Durante il ciclo elettorale del 2024, diverse rilevazioni del Pew Research Center mostravano tassi di favore tra il 79% e l’86%, con un sostegno particolarmente forte tra gli elettori sopra i 50 anni e tra i laureati. È un capitale politico che pesa, perché negli ultimi anni ha spesso orientato l’esito delle primarie.

Accanto a questi dati, però, esiste un altro livello di discussione, più riservato ma non meno influente. Tra dirigenti e grandi finanziatori del partito democratico permane il dubbio sulla reale competitività di Harris in un’elezione generale. La sconfitta del 2024 contro Donald Trump e J.D. Vance è ancora un riferimento costante nelle analisi interne. Secondo diverse ricostruzioni di Axios, tra i leader del partito circolano timori legati alla capacità di riconquistare gli elettori indecisi e una parte dell’elettorato moderato. Allo stesso tempo, le stesse fonti riconoscono che, numeri alla mano, Harris resta ai vertici delle preferenze per il 2028.

In questo contesto ha avuto risonanza anche un’analisi critica diffusa da RootsAction, che attribuisce la sconfitta del 2024 a scelte strategiche ritenute sbagliate: un messaggio economico giudicato troppo moderato, una linea poco chiara sul conflitto Israele-Gaza, e uno scarso investimento su giovani, lavoratori e comunità latine e arabo-americane. È una lettura di parte, ma contribuisce ad alimentare il dibattito interno perché tocca punti sensibili della coalizione democratica.

Il campo per il 2028 resta fluido. Gavin Newsom è considerato il rivale più strutturato. Nel 2025 ha accumulato una visibilità costante, tra iniziative mediatiche contro Trump, scelte politiche ad alto impatto simbolico in California e una presenza molto notata proprio alla riunione del DNC di Los Angeles. Resta aperta, però, la questione della sua capacità di parlare agli elettori del Midwest, spesso diffidenti verso quello che viene percepito come il “modello California”.

Altri potenziali candidati osservano e aspettano. Pete Buttigieg ha rinunciato a una corsa al Senato in Michigan, alimentando le ipotesi di ambizioni presidenziali. Ci sono poi il governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro, la deputata Alexandria Ocasio-Cortez, il governatore Tim Walz, e senatori come Cory Booker. Le loro percentuali oscillano tra il 2% e il 12%, soprattutto negli scenari ipotetici in cui Harris non corre. Ma la dinamica è chiara: molte decisioni restano sospese in attesa di una sua scelta formale.

Sul piano dei contenuti, Harris sta provando a spostare l’attenzione sul tema dell’“affordability”, il costo della vita. È una chiave di lettura sempre più centrale per gli elettori statunitensi, che valutano la politica partendo da prezzi, affitti, mutui, sanità. Nel confronto con il DNC, Harris e Ken Martin hanno usato un linguaggio diretto, quasi colloquiale, riconoscendo apertamente che “la vita costa troppo”. È il tentativo di riallacciare il rapporto con una classe media sotto pressione e di rafforzare il legame con lavoratori e sindacati. Non a caso, nel suo calendario trovano spazio contesti come quello degli United Farm Workers, dove si intrecciano salario, diritti e immigrazione, anche in relazione a proposte legislative come la Farm Workforce Modernization Act.

La sconfitta del 2024 resta un passaggio obbligato di ogni analisi. Un dato, però, appare ormai condiviso: l’elettorato afroamericano è rimasto, nel complesso, il segmento più fedele a Harris, anche nei momenti più difficili della campagna. Secondo il Pew Research Center, nell’estate 2024 il sostegno si aggirava intorno all’80%, con punte superiori all’85% tra gli elettori più anziani. Le criticità si sono concentrate altrove, tra giovani elettori più critici, settori della classe media colpiti dall’inflazione e indipendenti poco convinti dall’offerta economica democratica. È su questi spazi che la nuova impostazione di Harris tenta di intervenire, con un linguaggio meno istituzionale e più orientato ai problemi concreti.

Resta aperta la questione che domina le conversazioni tra governatori, consulenti e finanziatori: l’“electability”. Axiosdescrive un partito diviso tra il peso specifico di Harris, fatto di notorietà, rete e base elettorale, e l’attrazione per un’alternativa percepita come più fresca, come Newsom. I sondaggi a distanza di anni non sono predittivi, ma la percezione di forza ha un effetto concreto. Finché Harris resta davanti, molti potenziali rivali scelgono di attendere.

Nei prossimi mesi saranno osservati alcuni segnali chiave. Il tono dei messaggi, per capire se la critica allo status quo rappresenti un vero riposizionamento. L’agenda politica, per verificare se il focus su costo della vita e lavoro resterà centrale. La tenuta del consenso afroamericano, soprattutto negli Stati del Sud e nelle grandi aree urbane del Midwest. Il peso del cosiddetto “fattore Newsom”, in termini di consenso e raccolta fondi. E, non ultimo, il rapporto con i grandi donatori, spesso decisivo nelle fasi iniziali di una campagna.

I sondaggi nazionali a tre anni dal voto non sono profezie. Servono però a misurare notorietà, fiducia e fedeltà nei segmenti chiave dell’elettorato. In un partito senza un leader indiscusso, il vantaggio iniziale crea barriere all’ingresso. Oggi Kamala Harris dispone di questo vantaggio e lo utilizza per negoziare posizione e tempi.

La battuta su Doug Emhoff come possibile “first gentleman” riassume bene la fase attuale. Harris non ha annunciato una candidatura, ma agisce come chi vuole mantenerla sul tavolo. Dall’altra parte, Gavin Newsom e gli altri potenziali contendenti preparano le loro mosse. In questo spazio di attesa, il peso dell’elettorato afroamericano, la leadership nei sondaggi e la capacità di riscrivere il racconto dopo il 2024 sono i tre elementi che potrebbero trasformare un’ipotesi in una decisione. Per ora, nei corridoi del DNC, una frase continua a circolare: “non è finita”. E il partito, nei fatti, si comporta come se fosse vero.

Fonti: Morning Consult, Echelon Insights, Pew Research Center, Axios, RootsAction, dichiarazioni pubbliche del Democratic National Committee, eventi United Farm Workers.

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