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Cinquant’anni al Borghetto, una vita che resta. Don Giuseppe Duretto

Ha compiuto 90 anni: la musica di domenica, un murale sulla giustizia e una comunità che si riconosce nella sua presenza silenziosa

Cinquant’anni al Borghetto, una vita che resta

Don Giuseppe Duretto

Ci sono parroci che passano. E poi ce ne sono altri che restano. Don Giuseppe Duretto è uno di quelli che restano, anche quando non parlano, anche quando si mettono di lato. Novant’anni di vita e cinquanta passati al Borghetto di Ivrea, nella Chiesa di San Grato, non come custode di un edificio ma come presenza costante dentro le vite delle persone. Una di quelle figure che non fanno notizia finché non ci si ferma un attimo a guardare indietro e ci si accorge che, senza clamore, hanno tenuto insieme un pezzo di comunità.

Cinquant’anni nello stesso quartiere non sono una consuetudine. Sono una scelta, rinnovata ogni giorno.

Don Giuseppe Duretto arriva al Borghetto in anni in cui Ivrea stava cambiando pelle, attraversando trasformazioni sociali, economiche, culturali. Cambiavano le famiglie, cambiavano i lavori, cambiavano i ritmi della vita quotidiana. Lui restava. E restava non come spettatore, ma come presenza discreta, capace di accompagnare senza invadere, di ascoltare senza giudicare, di offrire parole solo quando servivano davvero.

Il primo appuntamento per festeggiarlo è già passato e ha detto molto più di qualsiasi discorso ufficiale. Una chiesa piena, una partecipazione sincera, composta, mai urlata. Gente arrivata non per dovere ma per riconoscenza. Volti diversi, età diverse, storie che si incrociano solo in apparenza. Chi crede. Chi dubita. Chi si è allontanato e poi è tornato. Chi non è mai entrato in chiesa ma ha sempre trovato una porta aperta.

In molti ricordano il suo stile sobrio, mai autoritario. La capacità di tenere insieme realtà differenti, di favorire collaborazioni sul territorio, di costruire ponti anziché confini. Non un parroco chiuso nella sacrestia, ma nemmeno un uomo in cerca di visibilità. Uno che ha sempre preferito lavorare perché le cose funzionassero, senza bisogno di mettersi al centro.

Ora il cammino continua. Domenica 14 dicembre, alle 17, la musica prenderà il posto delle parole con il concerto della Filarmonica Bosconerese nella chiesa di San Grato. Non un evento mondano, ma un altro gesto semplice, coerente con lo stile di questo parroco: condividere un momento bello, farlo insieme, senza separazioni. La musica come linguaggio universale, capace di unire chi ascolta senza chiedere nulla in cambio. Dopo, un brindisi sul sagrato, senza formalità, senza palchi. Niente di più, niente di meno. Perché a volte basta questo per dire grazie.

In mezzo a queste celebrazioni, però, c’è un segno che resta. Non per un giorno, ma nel tempo. Un segno che non si trova dentro la chiesa, ma appena fuori, nello spazio vissuto ogni giorno. Un murale comparso nell’androne che si apre sulla piazzetta del Borghetto, lo spazio che ospita la sede degli Aranceri dei Tuchini e gli incontri di catechismo. Un luogo di passaggio, attraversato da bambini, adulti, anziani. Un luogo che non chiede attenzione, ma che ora la merita.

Ed è proprio lì che l’artista Eugenio Pacchioli ha dipinto un’opera di circa venti metri quadrati che parla di giustizia. Non come parola astratta, ma come urgenza. Il murale racconta due urli: quello della natura ferita, sfruttata, continuamente messa alla prova da egoismi miopi; e quello delle disuguaglianze, sempre più profonde, che separano chi ha troppo da chi non ha abbastanza. Due grida che attraversano il nostro tempo e che trovano spazio su un muro che guarda una piazzetta di quartiere.

il murales

Non è una scelta casuale. La giustizia è il filo che lega storie apparentemente lontane. È la giustizia evocata ogni anno dai Tuchini, che nello Storico Carnevale di Ivrea rievocano la ribellione contro l’arbitrio del potere. È la giustizia che attraversa il Vangelo, quella che non si misura nelle dichiarazioni ma nei gesti, nell’attenzione agli ultimi, nella responsabilità verso chi resta indietro. È la giustizia come orizzonte comune, come domanda aperta.

In questo incrocio di storie, quel murale diventa anche un ritratto silenzioso di don Giuseppe Duretto. Non raffigurato come protagonista, ma come riferimento. Come qualcuno che, per cinquant’anni, ha tenuto fede a un’idea precisa di comunità: costruirla insieme, viverla ogni giorno, senza retorica e senza scorciatoie. Un’idea che non divide sacro e profano, ma li mette in dialogo, proprio come accade in quell’androne che unisce catechismo e aranceri, fede e memoria civile.

Il Borghetto oggi ha un’immagine in più, impressa su un muro. Ma soprattutto ha una storia che continua. Una storia fatta di relazioni, di piccoli gesti ripetuti nel tempo, di presenza costante. E domenica, tra le note di una filarmonica e un brindisi condiviso, non si celebrerà solo un compleanno. Si riconoscerà, ancora una volta, il valore di una presenza che ha saputo esserci. Senza mai fare rumore.

calendario

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