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12 Dicembre 2025 - 07:02
Donald Trump e Giorgia Meloni
In una stanza essenziale di un municipio francese di provincia, un sindaco racconta di essersi ritrovato a parlare di politica energetica europea con un gruppo di agricoltori. Nessuno cita il primo ministro a Parigi, tutti evocano Donald Trump. La scena è solo un frammento, ma restituisce un paradosso che emerge in modo nitido da una nuova classifica di percezione dell’influenza elaborata da Politico Europe insieme all’istituto britannico Public First. Sulla scacchiera europea, la figura con maggiore “presa” sulla popolazione, secondo il sondaggio, non siede in alcun palazzo dell’Unione. È il presidente degli Stati Uniti. E per molti intervistati la differenza non riguarda sfumature, ma intensità: Trump appare più “forte e deciso” dei leader di Germania, Francia e Regno Unito. Un risultato che pesa e che arriva mentre in Europa cresce la convinzione che il continente non guidi più l’agenda, ma la subisca, e che i propri governi mostrino limiti strutturali in un contesto internazionale più competitivo.
La rilevazione, condotta online tra il 5 e il 9 dicembre 2025 su oltre 10.000 persone in Stati Uniti, Canada, Germania, Francia e Regno Unito, attribuisce a Trump margini ampi rispetto ai leader europei. In Germania gli intervistati lo considerano più “forte e deciso” del cancelliere Friedrich Merz con un rapporto di 74% a 26%. In Francia il confronto con il presidente Emmanuel Macron si ferma a 73% contro 27%. Nel Regno Unito, Trump supera il premier Keir Starmer 69% a 31%. Solo in Canada il trend si inverte: il 60% giudica più forte l’ex governatore della Bank of England, Mark Carney, mentre il 40% indica Trump. L’indicazione generale che emerge è chiara: nel parametro “forza-decisione”, l’inquilino della Casa Bianca prevale. È una percezione, non la misura del potere reale, ma in politica la percezione orienta discorsi pubblici, priorità e aspettative, e la fotografia disegnata dal sondaggio lo conferma.

Emmanuel Macron
Un elemento che la rilevazione mette in evidenza, e che finora non è stato raccontato con sufficiente chiarezza nel dibattito pubblico, riguarda la ricostruzione della classifica vera e propria. Nella graduatoria elaborata da Politico Europe, la percezione di influenza vede Donald Trump nettamente in testa, con un distacco che gli stessi ricercatori definiscono insolito per questo tipo di misurazioni. Subito dietro, ma con valori molto inferiori, compaiono i leader europei che guidano le principali economie del continente. Emmanuel Macron e Friedrich Merz si collocano nella fascia intermedia della classifica, entrambi considerati figure capaci di incidere ma non in misura comparabile con l’inquilino della Casa Bianca. Nel caso britannico, la posizione del premier Keir Starmer appare più fragile e in diversi segmenti del campione scivola dietro figure non governative come Mark Carney, suggerendo una percezione di leadership ancora in costruzione. Più in basso si posiziona la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, la cui influenza è riconosciuta sul piano istituzionale ma non percepita dall’opinione pubblica come in grado di orientare gli equilibri globali allo stesso livello dei capi di governo. È una classifica che non assegna voti, ma definisce una gerarchia di percezioni e mostra un continente in cui il baricentro simbolico dell’influenza non coincide con quello della governance formale.
La stessa indagine rafforza una sensazione diffusa: molti europei ritengono i propri vertici deboli, condizionati da pressioni esterne o comunque in affanno rispetto alla velocità con cui si muovono Washington e altre capitali. Una tendenza già segnalata da altri istituti. Tra marzo e dicembre 2025, ricerche condotte in nove Paesi europei mostrano che quasi metà degli intervistati considera Trump un “nemico dell’Europa”, con livelli più alti in Belgio e Francia e più bassi in Polonia. Allo stesso tempo, però, una quota significativa riconosce la necessità di mantenere rapporti pragmatici con gli Stati Uniti, soprattutto su sicurezza, energia e industria. La coesistenza tra diffidenza e dipendenza è uno dei tratti più visibili del quadro europeo attuale.
Un tassello importante arriva dalle rilevazioni del Pew Research Center, che tra gennaio e aprile 2025 registrano che solo il 34% degli intervistati in 24 Paesi ripone fiducia nella capacità di Trump di gestire gli affari globali. In Germania e Spagna la fiducia è al 18% e al 19%. Il dato segnala scetticismo verso la leadership americana, ma convive con la percezione che il presidente USA influenzi direttamente le decisioni europee. Da qui nasce un altro fenomeno: la crescente domanda di autonomia strategica dell’Unione. Uno studio dell’European Council on Foreign Relations (ECFR) mostra che la maggioranza relativa degli europei non considera più gli Stati Uniti un alleato in senso tradizionale, ma un partner necessario. È una distinzione che incide sui dossier più delicati: NATO, sicurezza, energia, difesa e rapporti industriali. Parallelamente, cresce l’idea di una difesa comune europea e aumenta il sostegno, in diversi Paesi, a un riarmo di natura europea, calibrato su un’esigenza di protezione più autonoma.
Il clima di rischio contribuisce a spostare ulteriormente il quadro. Sondaggi recenti indicano che oltre il 50% degli europei considera elevato il rischio di un conflitto con la Russia nei prossimi anni e circa il 70% ritiene che i propri Paesi non sarebbero in grado di difendersi adeguatamente. La richiesta di un’Unione più protettiva aumenta, così come il favore verso misure come l’utilizzo degli asset russi congelati per il sostegno all’Ucraina. In questo contesto, la percezione di forza della leadership, interna o esterna, non appare più un tema di immagine, ma un fattore con impatto diretto sulla sicurezza collettiva.
La classifica di Politico Europe solleva un tema cruciale: influenza e popolarità non coincidono. Molte indagini confermano che in Europa occidentale Trump è visto con sospetto o ostilità. Ma la sua capacità di incidere su commercio, sicurezza, energia e migrazione è percepita come superiore a quella dei leader europei. È il primo paradosso. Il secondo riguarda l’effetto sull’autonomia europea: più la leadership americana viene considerata assertiva e meno prevedibile, più cresce il favore verso una difesa europea, politiche industriali indipendenti e una gestione delle catene del valore meno esposta ai condizionamenti esterni. L’attenzione non si concentra più sul “chi guida”, ma sul “come proteggere”, e molte capitali leggono questa dinamica come un’opportunità che però richiede scelte di bilancio e capacità operative ancora incomplete.
Il sondaggio Politico-Public First non misura poteri formali, ma percezioni immediate. Con oltre 10.000 intervistati, almeno 2.000 per Paese e un margine d’errore di circa ±2 punti, offre comparazioni solide pur nei limiti delle rilevazioni online. Tra i dati emergono aspetti rilevanti: tra le qualità ritenute più importanti per un leader, onestà e trasparenza superano la forza. Se Trump viene considerato più risoluto, questo non implica un’accettazione del suo metodo politico. La distinzione è significativa per capire come le opinioni pubbliche si orientino tra esigenza di stabilità e rifiuto di stili percepiti come conflittuali.
Per interpretare la fotografia del 2025 è utile ricordare un riferimento precedente: la Politico 28, la selezione annuale della redazione che individna le figure più influenti dell’anno. La Class of 2025 era guidata dalla premier italiana Giorgia Meloni, descritta come figura in grado di condizionare l’agenda europea e di dialogare con Washington. Quell’elenco, frutto di analisi giornalistica, misurava influenza istituzionale. Il nuovo sondaggio misura invece la percezione popolare della forza. Due strumenti differenti, due risultati non in contraddizione ma complementari. Una leadership può essere centrale nelle decisioni e, allo stesso tempo, apparire meno incisiva nella narrazione pubblica, specie quando il confronto avviene con un presidente americano che definisce tempi e priorità globali.
Le tensioni degli ultimi mesi hanno alimentato la sensazione di una Europa a rimorchio. Un sondaggio condotto in cinque grandi Paesi dell’Unione, subito dopo l’accordo commerciale UE-USA siglato nel luglio 2025, mostra che il 77% degli intervistati ritiene che l’intesa favorisca soprattutto Washington, mentre solo il 2% la considera vantaggiosa per l’Europa. Oltre la metà la definisce una umiliazione. Cresce così la diffidenza verso la gestione europea del rapporto con la Casa Bianca e, in alcuni Paesi, compaiono persino tentazioni di boicottaggio. Che questi giudizi siano accurati è discutibile, ma il loro peso politico è evidente.
Sul fronte ucraino, le opinioni sono divise. In Italia prevale il rifiuto di un ulteriore impegno militare, mentre nel Nord Europa e in Polonia la posizione dominante è opposta. In mezzo, prende forma una possibile via europea: maggiore cooperazione industriale, limiti alla spesa extra-UE per sistemi d’arma e una deterrenza condivisa. La disponibilità a impiegare i 235 miliardi di euro di asset russi congelati per sostenere Kyiv incontra un largo consenso nei Paesi analizzati.
Per le capitali europee, la questione è come ricalibrare la narrazione pubblica. Se i cittadini attribuiscono valore alla forza percepita, non basta affidarsi alla comunicazione. Servono decisioni verificabili sui dossier essenziali: difesa comune, energia competitiva, politica industriale meno fragile. La stessa indagine Politico-Public First mostra che trasparenza e onestà contano più della determinazione muscolare. In tempi segnati dalla disinformazione, spiegare costi, vincoli e scelte è parte integrante della leadership. Rafforzare la capacità europea di influenzare standard tecnologici, catene del valore e politiche commerciali è un altro passaggio necessario per non subire agende esterne.
Ogni sondaggio è una fotografia, e quella scattata da Politico Europe e Public First tra il 5 e il 9 dicembre 2025 riflette un momento specifico. È una misura comparata di percezione in cinque Paesi, non la definizione della realtà europea nel suo complesso. Eppure, il suo valore è significativo perché si inserisce in tendenze registrate da altri istituti come Pew, ECFR e Cluster17 per Le Grand Continent. Da questi dati emerge un nucleo coerente: erosione della fiducia nel multilateralismo a guida americana, domanda crescente di protezione europea, tensione tra la necessità di cooperare con Washington e la percezione di una agenda esterna spesso invasiva. Il primato di Trump nella classifica della percezione dell’influenza non è un incidente statistico. È il riflesso di un vuoto che l’Europa non ha ancora colmato. Quando l’Unione non definisce la propria agenda, qualcun altro lo fa.
I prossimi mesi indicheranno se la percezione di forza americana continuerà a influenzare dossier come dazi, energia e tecnologia. La traiettoria dell’autonomia strategica dipenderà dalla capacità europea di convertire dichiarazioni politiche in risultati operativi. La tenuta del consenso interno sarà decisiva: inflazione, costo dell’energia e guerra restano variabili instabili, e la leadership dovrà dimostrare efficacia e legittimazione. Il sondaggio Politico-Public First ricorda che la forza è una moneta politica spendibile, ma insufficiente a generare fiducia. Indica che influenza e popolarità non coincidono. E suggerisce che una Europa capace di decisione non per imitazione, ma per coerenza con i propri interessi, può tornare a orientare le scelte. È la differenza tra contare e convincere: la prima è una questione di potere, la seconda una responsabilità politica.
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