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Donbass, svolta nei negoziati: l’Ucraina valuta una zona demilitarizzata. Pressioni USA e dubbi europei

Kiev apre all’ipotesi di una DMZ come base per i colloqui con Stati Uniti e Russia, mentre l’Europa chiede garanzie e Mosca insiste su riconoscimenti territoriali. Sul tavolo sicurezza, ricostruzione e rischi di congelamento del conflitto

Donbass, svolta nei negoziati: l’Ucraina valuta una zona demilitarizzata. Pressioni USA e dubbi europei

Starmer e Zelensky

Una sera gelida a Downing Street. Le auto blindate si sono allineate sotto i riflettori. Nella foto dell’8 dicembre 2025, accanto a Volodymyr Zelensky compaiono Keir Starmer, Emmanuel Macron e, leggermente arretrato, Friedrich Merz. È passato appena un giorno e lo stesso cancelliere tedesco ha ammesso, con la prudenza di chi conosce il peso di ogni parola, che l’Ucraina è “pronta” a valutare una zona demilitarizzata nel Donbass come punto di partenza nei colloqui con Stati Uniti e Russia. Non una resa, precisano a Kiev, ma l’apertura a un possibile corridoio di sicurezza, una porzione di territorio sorvegliata da osservatori internazionali, per tentare di ridurre un conflitto che prosegue da quasi quattro anni e che ha ridefinito l’architettura della sicurezza europea.

Nelle bozze negoziali circolate fra Kiev, Washington e diverse capitali europee, la prospettiva della zona demilitarizzata (DMZ, Demilitarized Zone) assume tratti concreti: ritiro graduale delle forze armate dalle posizioni attuali nel Donbass, divieto di armi pesanti, postazioni offensive e sorvoli militari all’interno della fascia cuscinetto, presenza di una missione internazionale con compiti di osservazione, raccolta di informazioni e verifica delle violazioni. In Europa si discute di una forza mista, guidata da Paesi occidentali, capace non solo di monitorare ma anche di reagire a eventuali incursioni.

Secondo tecnici e funzionari coinvolti nel dossier, la DMZ sarebbe più estesa e complessa della linea di sicurezza creata tra Corea del Nord e Corea del Sud nel 1953. Il fronte ucraino si sviluppa infatti per centinaia di chilometri, richiedendo una fascia più lunga e più profonda per limitare il raggio d’azione dell’artiglieria. L’obiettivo dichiarato è duplice: ridurre il contatto armato e creare margini politici per affrontare le altre questioni aperte, dalla sicurezza attorno alla centrale di Zaporizhzhia alla protezione dei centri urbani di retrovia, fino ai meccanismi che dovrebbero irrobustire qualsiasi cessate il fuoco.

La cornice resta statunitense. A Washington, la proposta è quella di smilitarizzare la parte del Donbass controllata oggi dall’Ucraina, imponendo sia il ritiro delle sue truppe sia il divieto per le forze russe di entrare nella fascia neutra. A questa impostazione si affianca un’idea nuova: una “zona economica speciale” nelle regioni orientali, concepita per attirare investimenti e interventi di ricostruzione senza la presenza di forze armate. Il lessico racconta il confronto in corso: Mosca preferisce parlare di DMZ, Washington tenta di presentarla come spazio economico neutro, mentre Kievlega ogni opzione a garanzie giuridiche forti e a verifiche costanti.

Il presidente Zelensky ha consegnato agli Stati Uniti una piattaforma aggiornata in venti punti e ha indicato che, su eventuali concessioni territoriali, la parola finale dovrebbe spettare agli elettori attraverso referendum o elezioni in condizioni di sicurezza. Un passaggio necessario sia per i vincoli costituzionali, che impediscono cessioni unilaterali, sia per ottenere una legittimazione popolare. Allo stesso tempo, Zelensky ribadisce che l’integrità territoriale resta un principio non negoziabile. L’apertura alla DMZ è dunque uno strumento, non un cedimento, e deve evitare l’effetto di un congelamento indefinito del conflitto.

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Sul fronte europeo, la proposta è stata accolta come base di discussione. Non un via libera, ma un orientamento politico. Nella dichiarazione del 22 novembre 2025, i leader europei — Friedrich Merz, Emmanuel Macron, Giorgia Meloni, Pedro Sánchez, Donald Tusk, Keir Starmer — hanno riconosciuto lo sforzo statunitense e fissato limiti chiari: i confini non si modificano con la forza e nessuna misura dovrà lasciare l’Ucraina esposta a nuove aggressioni. L’Unione Europea è disponibile a impegnarsi, ma ricorda che ogni decisione che coinvolge direttamente UE e NATO(North Atlantic Treaty Organization, Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord) richiede il consenso dei singoli membri.

I governi europei insistono sul rischio che la DMZ diventi una “zona grigia”, facilmente permeabile a droni, sabotaggi e infiltrazioni russe. Per questo chiedono monitoraggio tecnologico avanzato, norme rigorose sull’impiego dell’artiglieria e, soprattutto, una missione internazionale con poteri reali di dissuasione. In parallelo, diverse capitali, a partire da Berlino, stanno lavorando a un pacchetto economico per la ricostruzione e al rafforzamento della difesa aerea ucraina.

A Kiev la valutazione si muove su più livelli. Dal punto di vista militare, il fronte del Donbass rimane logorante: una fascia cuscinetto ridurrebbe il contatto diretto e consentirebbe di riequipaggiare le brigate e riparare infrastrutture critiche come la rete elettrica. Sul piano politico, l’Ucraina vuole consolidare il rapporto con Stati Uniti ed Europa, evitando tensioni proprio mentre si discute di sanzioni, utilizzo degli asset russi congelati e garanzie di sicurezza. Sul piano giuridico, la Costituzione impone che ogni decisione sui confini passi dai cittadini, e la consultazione popolare diventa quindi un cardine. Resta però una linea rossa: Kiev respinge testi che implichino un abbandono formale del Donbass o che non prevedano un meccanismo di ritorno in caso di violazioni. Alcune bozze circolate negli Stati Uniti ipotizzavano un ritiro ucraino senza un arretramento russo speculare. Per Kiev, una simmetria insufficiente cristallizzerebbe l’occupazione di fatto.

Il negoziato coinvolge altri punti ad alta sensibilità. La centrale di Zaporizhzhia è al centro di proposte che vanno da una gestione congiunta a una supervisione internazionale, con la richiesta ucraina di accesso pieno degli ispettori e catene di comando trasparenti. Le altre linee del fronte potrebbero essere congelate in Kherson, Zaporizhzhia, e in parte nelle regioni di Kharkiv, Sumy e Dnipropetrovsk. Circola inoltre l’ipotesi di fissare un tetto di circa ottocentomila effettivi per le forze armate ucraine nel dopo-conflitto. Kiev è disponibile a discutere eventuali trasformazioni in linea con gli standard NATO, ma non accetterà limiti che indeboliscano la deterrenza. Sul piano economico, la proposta della zona economica speciale si inserisce in un più ampio programma di ricostruzione sostenuto da UE, G7 e istituzioni finanziarie, con l’uso degli asset russi congelati come nodo ancora aperto.

Dagli Stati Uniti arriva la pressione per chiudere entro dicembre una cornice politica che consenta almeno una pausa ai combattimenti più intensi. Mosca, però, continua a chiedere riconoscimenti territoriali sostanziali e limitazioni permanenti alla capacità militare ucraina. Pur parlando di colloqui “utili e costruttivi”, il Cremlino non mostra aperture sui territori. Una DMZ sbilanciata, senza ritiri simultanei e senza meccanismi di sanzione automatica, rischierebbe di trasformarsi in un’altra linea instabile. Sul versante NATO, il segretario generale Mark Rutte ha richiamato l’Europa ad aumentare la spesa per la difesa, mentre da Berlino Merz ha ribadito che il continente non vive una condizione di stabilità nei rapporti con la Russia.

Per i civili del Donbass, una DMZ significherebbe corridoi umanitari più prevedibili, riduzione del rischio di attacchi, possibilità di ripristinare servizi essenziali. Restano però interrogativi concreti: dove passerebbe esattamente la linea? Quali municipalità sarebbero incluse o escluse? Quali diritti sarebbero garantiti nelle zone più esposte? Per amministratori locali e autorità regionali, significherebbe mesi di pianificazione con fondi straordinari per trasporti, sanità, energia e ricostruzione industriale. Per le forze armate ucraine, comporterebbe una riorganizzazione logistica profonda, con la consapevolezza che qualsiasi violazione potrebbe far precipitare la situazione.

Sul piano giuridico resta il nodo della consultazione popolare. L’Ucraina non può modificare i confini tramite decisione amministrativa interna. Da qui la necessità di referendum o elezioni in condizioni sicure, con osservazione internazionale e standard OSCE (Organization for Security and Co-operation in Europe, Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Resta complesso garantire seggi sicuri e media indipendenti in una regione adiacente a una DMZ. La credibilità del processo dipenderà dalla trasparenza dei registri elettorali, dall’accesso degli osservatori e dalla sicurezza per candidati ed elettori.

Le richieste ucraine sono precise: garanzie multilivello di sicurezza, combinando difesa aerea, radar e sistemi antimissile; finanziamenti certi per la ricostruzione e la reindustrializzazione dell’Est; tutela piena di sovranità, giurisdizione e sistema giudiziario nelle aree vicine alla DMZ; avanzamento del percorso di adesione all’Unione Europea, con fondi e tappe definite.

Il piano dovrà anche essere sostenibile sul piano politico interno. A Mosca, la DMZ verrebbe presentata come segnale di arretramento ucraino; a Kiev, rischierebbe di essere letta come concessione mascherata. La sua accettabilità dipende da ritiri simultanei, da una missione internazionale robusta, da garanzie economiche e militari visibili. In queste condizioni, potrebbe essere interpretata come una pausa utile; senza queste garanzie, diventerebbe difficile da sostenere.

Quasi quattro anni dopo l’invasione del 24 febbraio 2022, la guerra ha cambiato forma. I droni e le munizioni a lungo raggio hanno reso vulnerabili i retrofronti, mentre le catene di produzione militare sia europee sia russe si sono adattate al conflitto. In questo contesto, una DMZ è il riconoscimento che nessuno può imporre rapidamente la propria soluzione sul campo. È un passaggio verso un negoziato più ampio.

Chi sostiene la DMZ ricorda che potrebbe ridurre le vittime, permettere una pianificazione congiunta fra Europa, Stati Uniti e Ucraina per un nuovo assetto di difesa e ricostruzione, e verificare la credibilità delle garanzie russe. I critici evocano l’“effetto Corea”, un congelamento decennale con tensioni ricorrenti. Per questo le condizioni operative sono decisive.

Nella sua versione più equilibrata, l’apertura di Kiev alla DMZ nel Donbass è il tentativo di usare uno strumento tecnico per diminuire la pressione sul fronte e verificare la disponibilità russa a una de-escalation reale. È anche il segnale che l’Europa — da Berlino a Parigi, da Londra a Roma — è disposta a sostenere finanziariamente e politicamente un percorso che tenga insieme sovranità, sicurezza dei civili e inviolabilità dei confini. Se però la DMZ dovesse tradursi in una concessione territoriale senza garanzie equivalenti, il risultato sarebbe una stabilizzazione apparente del conflitto. Per evitarlo serviranno trasparenza, strumenti di controllo immediati e un coordinamento reale fra UE e Stati Uniti. Solo così la cosiddetta “terra di nessuno” potrà diventare una zona di contenimento e non l’ennesima ferita aperta nella mappa europea.


Fonti utilizzate:
Downing Street, Presidenza Ucraina, Governo Tedesco, Governo Francese, Governo Britannico, Governo Italiano, Unione Europea, NATO, OSCE, documenti negoziali informali circolati tra Washington, Kiev e capitali europee.

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