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11 Dicembre 2025 - 19:32
“Sempre online, sempre soli”: cosa ci racconta davvero il primo grande studio sulla salute mentale degli influencer
Alle 3:17 di notte, un’unica luce taglia il buio di un salotto. Sullo schermo, la curva delle visualizzazioni precipita, l’algoritmo cambia umore, i commenti si fanno più feroci. Un creator cancella e riscrive la caption per la quarta volta, murato nel mantra che lo tiene sveglio: devo postare adesso, o perdo il treno. La mano trema, e non è per il caffè. È il punto in cui la linea tra lavoro e identità si incrina, mentre il resto del mondo dorme e il mestiere dei creator resta acceso.
La ricerca firmata da Creators 4 Mental Health con Lupiani Insights & Strategies, diffusa dalla Harvard T.H. Chan School of Public Health, offre un quadro che non lascia appigli all’ottimismo. Su 542 creator nordamericani, il 52% riferisce ansia, il 35% depressione e il 62% burnout ricorrente. Uno su dieci ha pensieri suicidi legati al proprio lavoro, quasi il doppio della media adulta statunitense. Più cresce l’anzianità, più peggiora la salute mentale: i “veterani” parlano di stress cronico, instabilità economica e senso di precarietà. È il primo benchmark su larga scala che mette ordine a ciò che finora si vedeva solo attraverso glitch e confessioni sparse nei feed.
Secondo gli esperti del centro di comunicazione per la salute di Harvard, i creator sono ingranaggi decisivi di un’economia da oltre duecento miliardi di dollari e, insieme, una fonte di informazione quotidiana per miliardi di persone. Ma il loro benessere psicologico resta fragile e la protezione istituzionale quasi inesistente.
Nel commentare lo studio, lo psichiatra Federico Tonioni del Policlinico Gemelli ricorda che le relazioni online sono autentiche ma “rappresentate”, non “presentate”: un frame che può alimentare dissociazione, pensiero paranoico e vulnerabilità quando la propria immagine diventa il principale fatturato. La visibilità funziona come carburante narcisistico, può amplificare predisposizioni preesistenti e trasformare la professione in detonatore più che in causa primaria. È uno sguardo clinico che invita alla prudenza e respinge facili spiegazioni.
Il lavoro dei creator è diverso perché l’algoritmo è un capo imprevedibile: i picchi e i crolli della reach generano ipervigilanza quotidiana e un senso di impotenza che erode la percezione di controllo. Identità e lavoro coincidono, esponendo chi crea contenuti a critiche costanti e auto-valutazioni senza tregua. L’instabilità economica è strutturale: il 69% segnala redditi oscillanti, senza stipendi fissi o benefit. E mentre la connessione è permanente, il 43% riferisce isolamento, una solitudine che nessuna presenza digitale riesce a mascherare.
La creator economy supera già i duecento miliardi di dollari e potrebbe toccare i 480 miliardi entro il 2027, secondo Goldman Sachs Research. Stime più recenti indicano che nel 2025 i ricavi pubblicitari delle piattaforme supereranno quelli dei media tradizionali. Ma la crescita non coincide con un sistema di welfare: l’89% dei creator non ha accesso a risorse dedicate alla salute mentale. È il paradosso di un’industria che macina soldi ma offre paracaduti di carta velina.
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Le piattaforme intanto avanzano a piccoli passi. TikTok ha avviato collaborazioni con Headspace, YouTube ha lanciato un’area informativa su ansia e depressione per i più giovani, Meta ha introdotto restrizioni per i minorenni e limiti alla visibilità di contenuti sensibili. Sono tasselli utili, ma non sostitutivi di vere tutele del lavoro. Sul fronte della sicurezza, Instagram filtra commenti ostili e prova a gestire gli attacchi a ondate dopo i picchi di visibilità. Sono palliativi: riducono il danno, non il rischio.
Le linee guida dell’OMS e il policy brief WHO/ILO fissano tre assi: prevenzione dei rischi psicosociali, promozione della salute mentale e supporto per chi sviluppa un disturbo. È un approccio nato per gli ambienti di lavoro tradizionali, ma l’economia dei creator ne rivela la necessità: carichi sostenibili, obiettivi realistici, modelli organizzativi che non trasformino ogni ora libera in un’occasione perduta. I costi globali di ansia e depressione – mille miliardi l’anno in produttività – sono un promemoria per i decisori.
Dentro i numeri dello studio emergono alcune correlazioni nette: il 65% controlla compulsivamente gli analytics, e la flessione dell’engagement colpisce l’autostima per il 58%. L’instabilità economica pesa su ansia e depressione, la solitudine operativa alimenta il burnout. E più lunga è la carriera, più dura è la ricaduta: solo l’8% descrive la propria salute mentale come eccellente, percentuale che si assottiglia tra chi è nel settore da più anni.
Il punto, avverte ancora Tonioni, è non scivolare nella narrativa dell’“algoritmo cattivo”. Le vulnerabilità individuali contano, e il lavoro del creator può esporle come un riflettore puntato a distanza ravvicinata. Servono dunque due lenti: una sulla storia personale e una sulle condizioni materiali di produzione.
Nel breve, i creator possono stabilire confini orari, limitare il controllo degli analytics a momenti definiti, curare routine di base come sonno e attività fisica, costruire reti tra pari e cercare professionisti che conoscano le dinamiche del settore. Ma è un primo soccorso, non una riforma.
Il resto tocca ai brand, alle agenzie e alle piattaforme: contratti chiari, pagamenti puntuali, compensi trasparenti, minimi garantiti, benefit condivisi per la salute mentale, strumenti anti-abuso che non si fermino alla moderazione. E soprattutto una revisione dei criteri di valutazione, riducendo il peso delle metriche-vanità e includendo indicatori di qualità e sicurezza.
Il nodo resta culturale. Affidare tutto alla resilienza del singolo è comodo, ma distorce il quadro. Le linee guida OMS/ILO insistono sui cambiamenti strutturali: orari definiti, carichi sostenibili, formazione di chi supervisiona, obiettivi compatibili con la salute. Applicarlo alle piattaforme significa rivedere incentivi, policy e logiche algoritmiche che premiano l’iper-produzione e rendono imprevedibili le entrate.
Da qui passa un’agenda minima: riconoscere il lavoro dei creator come lavoro a pieno titolo, applicare standard internazionali di salute e sicurezza, chiedere responsabilità misurabili ai grandi attori dell’ecosistema, sostenere ricerca indipendente e rilevazioni periodiche sui bisogni psicologici della categoria. L’obiettivo è restituire ai creator la possibilità di spegnersi, non di spegnere tutto. Perché se la cultura digitale è ormai parte dell’informazione, dell’intrattenimento e perfino della salute pubblica, la salute di chi la produce non può restare una variabile esterna.
I dati arrivano da un’indagine su 542 creator nordamericani e riflettono il perimetro metodologico e temporale della ricerca, pubblicata nel novembre 2025. La convergenza tra Harvard T.H. Chan School of Public Health, analisi indipendenti e testate di settore rafforza la solidità del quadro, ma il fenomeno richiede monitoraggio continuo e studi comparativi in altre regioni per comprendere quanto questa crisi sia globale e quanto culturale.
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