Cerca

Attualità

“Sempre online, sempre soli”: cosa ci racconta davvero il primo grande studio sulla salute mentale degli influencer

Ansia, depressione, burnout e pensieri suicidi colpiscono i creator molto più degli altri lavoratori. Un’indagine su 542 professionisti nordamericani, pubblicata dalla Harvard T.H. Chan School of Public Health, fotografa un’industria da oltre 200 miliardi di dollari priva di tutele e di infrastrutture di supporto

“Sempre online, sempre soli”: cosa ci racconta davvero il primo grande studio sulla salute mentale degli influencer

“Sempre online, sempre soli”: cosa ci racconta davvero il primo grande studio sulla salute mentale degli influencer

Alle 3:17 di notte, un’unica luce taglia il buio di un salotto. Sullo schermo, la curva delle visualizzazioni precipita, l’algoritmo cambia umore, i commenti si fanno più feroci. Un creator cancella e riscrive la caption per la quarta volta, murato nel mantra che lo tiene sveglio: devo postare adesso, o perdo il treno. La mano trema, e non è per il caffè. È il punto in cui la linea tra lavoro e identità si incrina, mentre il resto del mondo dorme e il mestiere dei creator resta acceso.

La ricerca firmata da Creators 4 Mental Health con Lupiani Insights & Strategies, diffusa dalla Harvard T.H. Chan School of Public Health, offre un quadro che non lascia appigli all’ottimismo. Su 542 creator nordamericani, il 52% riferisce ansia, il 35% depressione e il 62% burnout ricorrente. Uno su dieci ha pensieri suicidi legati al proprio lavoro, quasi il doppio della media adulta statunitense. Più cresce l’anzianità, più peggiora la salute mentale: i “veterani” parlano di stress cronico, instabilità economica e senso di precarietà. È il primo benchmark su larga scala che mette ordine a ciò che finora si vedeva solo attraverso glitch e confessioni sparse nei feed.

Secondo gli esperti del centro di comunicazione per la salute di Harvard, i creator sono ingranaggi decisivi di un’economia da oltre duecento miliardi di dollari e, insieme, una fonte di informazione quotidiana per miliardi di persone. Ma il loro benessere psicologico resta fragile e la protezione istituzionale quasi inesistente.

Nel commentare lo studio, lo psichiatra Federico Tonioni del Policlinico Gemelli ricorda che le relazioni online sono autentiche ma “rappresentate”, non “presentate”: un frame che può alimentare dissociazione, pensiero paranoico e vulnerabilità quando la propria immagine diventa il principale fatturato. La visibilità funziona come carburante narcisistico, può amplificare predisposizioni preesistenti e trasformare la professione in detonatore più che in causa primaria. È uno sguardo clinico che invita alla prudenza e respinge facili spiegazioni.

Il lavoro dei creator è diverso perché l’algoritmo è un capo imprevedibile: i picchi e i crolli della reach generano ipervigilanza quotidiana e un senso di impotenza che erode la percezione di controllo. Identità e lavoro coincidono, esponendo chi crea contenuti a critiche costanti e auto-valutazioni senza tregua. L’instabilità economica è strutturale: il 69% segnala redditi oscillanti, senza stipendi fissi o benefit. E mentre la connessione è permanente, il 43% riferisce isolamento, una solitudine che nessuna presenza digitale riesce a mascherare.

La creator economy supera già i duecento miliardi di dollari e potrebbe toccare i 480 miliardi entro il 2027, secondo Goldman Sachs Research. Stime più recenti indicano che nel 2025 i ricavi pubblicitari delle piattaforme supereranno quelli dei media tradizionali. Ma la crescita non coincide con un sistema di welfare: l’89% dei creator non ha accesso a risorse dedicate alla salute mentale. È il paradosso di un’industria che macina soldi ma offre paracaduti di carta velina.

Le piattaforme intanto avanzano a piccoli passi. TikTok ha avviato collaborazioni con Headspace, YouTube ha lanciato un’area informativa su ansia e depressione per i più giovani, Meta ha introdotto restrizioni per i minorenni e limiti alla visibilità di contenuti sensibili. Sono tasselli utili, ma non sostitutivi di vere tutele del lavoro. Sul fronte della sicurezza, Instagram filtra commenti ostili e prova a gestire gli attacchi a ondate dopo i picchi di visibilità. Sono palliativi: riducono il danno, non il rischio.

Le linee guida dell’OMS e il policy brief WHO/ILO fissano tre assi: prevenzione dei rischi psicosociali, promozione della salute mentale e supporto per chi sviluppa un disturbo. È un approccio nato per gli ambienti di lavoro tradizionali, ma l’economia dei creator ne rivela la necessità: carichi sostenibili, obiettivi realistici, modelli organizzativi che non trasformino ogni ora libera in un’occasione perduta. I costi globali di ansia e depressione – mille miliardi l’anno in produttività – sono un promemoria per i decisori.

Dentro i numeri dello studio emergono alcune correlazioni nette: il 65% controlla compulsivamente gli analytics, e la flessione dell’engagement colpisce l’autostima per il 58%. L’instabilità economica pesa su ansia e depressione, la solitudine operativa alimenta il burnout. E più lunga è la carriera, più dura è la ricaduta: solo l’8% descrive la propria salute mentale come eccellente, percentuale che si assottiglia tra chi è nel settore da più anni.

Il punto, avverte ancora Tonioni, è non scivolare nella narrativa dell’“algoritmo cattivo”. Le vulnerabilità individuali contano, e il lavoro del creator può esporle come un riflettore puntato a distanza ravvicinata. Servono dunque due lenti: una sulla storia personale e una sulle condizioni materiali di produzione.

Nel breve, i creator possono stabilire confini orari, limitare il controllo degli analytics a momenti definiti, curare routine di base come sonno e attività fisica, costruire reti tra pari e cercare professionisti che conoscano le dinamiche del settore. Ma è un primo soccorso, non una riforma.

Il resto tocca ai brand, alle agenzie e alle piattaforme: contratti chiari, pagamenti puntuali, compensi trasparenti, minimi garantiti, benefit condivisi per la salute mentale, strumenti anti-abuso che non si fermino alla moderazione. E soprattutto una revisione dei criteri di valutazione, riducendo il peso delle metriche-vanità e includendo indicatori di qualità e sicurezza.

Il nodo resta culturale. Affidare tutto alla resilienza del singolo è comodo, ma distorce il quadro. Le linee guida OMS/ILO insistono sui cambiamenti strutturali: orari definiti, carichi sostenibili, formazione di chi supervisiona, obiettivi compatibili con la salute. Applicarlo alle piattaforme significa rivedere incentivi, policy e logiche algoritmiche che premiano l’iper-produzione e rendono imprevedibili le entrate.

Da qui passa un’agenda minima: riconoscere il lavoro dei creator come lavoro a pieno titolo, applicare standard internazionali di salute e sicurezza, chiedere responsabilità misurabili ai grandi attori dell’ecosistema, sostenere ricerca indipendente e rilevazioni periodiche sui bisogni psicologici della categoria. L’obiettivo è restituire ai creator la possibilità di spegnersi, non di spegnere tutto. Perché se la cultura digitale è ormai parte dell’informazione, dell’intrattenimento e perfino della salute pubblica, la salute di chi la produce non può restare una variabile esterna.

I dati arrivano da un’indagine su 542 creator nordamericani e riflettono il perimetro metodologico e temporale della ricerca, pubblicata nel novembre 2025. La convergenza tra Harvard T.H. Chan School of Public Health, analisi indipendenti e testate di settore rafforza la solidità del quadro, ma il fenomeno richiede monitoraggio continuo e studi comparativi in altre regioni per comprendere quanto questa crisi sia globale e quanto culturale.

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori