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10 Dicembre 2025 - 18:34
Italia oltre il limite climatico: zero termico a 4.000 metri in dicembre
C’è un cartello provvisorio, rosso e bianco, inchiodato a un palo di legno lungo un sentiero delle Dolomiti di Brenta: “Sentiero chiuso per caduta massi”. È fine luglio, ma sembra dicembre: lo zero termico torna a mostrarsi a 4.000 metri, ribaltando la logica delle stagioni e ricordando che il 2025, anno tra i più caldi mai registrati, ha trasformato il confine tra quote e mesi in una linea cancellabile con un gesto. I dati del servizio europeo Copernicus – C3S (ECMWF) raccontano una temperatura media globale superiore di +1,48°C rispetto all’epoca preindustriale tra gennaio e novembre, con il 2025 destinato a chiudere sul podio degli anni più caldi. Ancora più rilevante è la media mobile: il triennio 2023–2025 è il primo con un superamento stabile di +1,5°C, la soglia-simbolo dell’Accordo di Parigi, segnale di un overshoot che non appartiene più ai modelli ma alla vita quotidiana.
L’Italia è un laboratorio a cielo aperto di questo nuovo assetto climatico. Il Mediterraneo si conferma un hotspot, con ondate di calore marine anticipate e diffuse; le Alpi mostrano un arretramento della criosfera e una perdita di stabilità legata al degrado del permafrost. La penisola vive un’alternanza di siccità-lampo e nubifragi violenti, temperature estreme e un livello di fragilità territoriale che supera le capacità di difesa costruite nel Novecento.
A fotografare il contesto globale sono i bollettini di Copernicus – C3S e dei principali centri internazionali. Dopo un 2024 classificato come l’anno più caldo mai misurato e primo a superare +1,5°C sull’intero anno, il 2025 consolida un surriscaldamento strutturale: la media gennaio–novembre tocca +1,48°C, mentre il solo novembre registra +1,54°C, tra i più caldi della storia. Il ciclo El Niño/La Niña ha modulato gli estremi, ma la spinta dominante resta l’accumulo di gas serra da combustibili fossili. Nel Paese, la percezione è immediata: città in allerta rossa, zero termico anomalo più volte oltre quota 4.000, e contrasti atmosferici che generano fenomeni brevi ma devastanti. I meteorologi Lorenzo Tedici e Mattia Gussoni (iLMeteo.it) spiegano come mari eccezionalmente caldi e montagne indebolite dall’alternanza gelo–disgelo alimentino un mix che rende meno prevedibile ogni stagione.
Il Mar Mediterraneo, bacino piccolo e semichiuso, continua ad accumulare calore a un ritmo superiore alla media globale. Secondo il servizio marino di Copernicus, gestito da Mercator Ocean International, il giugno 2025 è stato il più caldo mai osservato, con una SST media di 23,9°C: significa più energia pronta a trasformarsi in temporali autorigeneranti, trombe marine, medicane e piogge torrenziali su aree densamente urbanizzate. Nel picco di fine giugno, circa il 62% della superficie del bacino è stata investita da ondate di calore marine di categoria “forte” o superiore, record assoluto. I progetti coordinati da CNR-ISMAR, ENEA e INGV confermano un aumento di oltre +1°C nella temperatura superficiale in venticinque anni, con un riscaldamento degli strati profondi fino a 800 metri: un’inerzia che sfuggirà per decenni ai tentativi di mitigazione. La cosiddetta “tropicalizzazione” non è una figura retorica: significa specie aliene sempre più presenti, maggiore probabilità di bloom algali, stress per coralli e Posidonia, e un’atmosfera più carica di energia.

Sulle Alpi, l’impatto del riscaldamento è altrettanto netto: la rete glaciologica svizzera GLAMOS registra nel 2025 una perdita di circa il 3% del volume dei ghiacciai elvetici, la quarta più grave mai misurata. In dieci anni, la Svizzera ha perso un quarto del proprio ghiaccio e più di mille piccoli ghiacciai sono scomparsi. Inverni poveri di neve e ondate di calore già a giugno sciolgono con mesi di anticipo la “coperta” che protegge i ghiacciai. Il network PERMOS segnala temperature del permafrost ai massimi, con aumenti fino a +0,8°C a dieci metri di profondità in un decennio. Il risultato è una montagna che si slega: frane più frequenti, crolli in parete, sentieri da chiudere o deviare, rifugi e impianti da manutenere con costi crescenti. Nell’estate 2025, una serie di crolli nelle Dolomiti di Brenta ha imposto evacuazioni e chiusure, confermando l’allarme dei gestori di parchi: il calendario dei rischi non segue più schemi stagionali.
Il contraccolpo sulla pianura è idrologico. Con ghiacciai più piccoli e nevicate invernali irregolari, i deflussi estivi diminuiscono e aumenta la competizione tra agricoltura, consumi civili ed ecosistemi. Periodi siccitosi intervallati da piogge torrenziali mettono sotto stress invasi, canali e acquedotti, spesso datati e fragili. Il sistema entra in tensione e l’adattamento si affida a soluzioni che non sempre trovano consenso o tempi adeguati.
La notizia dello zero termico a 4.000 metri in dicembre è più di una curiosità: è la sintesi di un cambiamento strutturale. Pioggia a quote normalmente innevate, neve bagnata e instabilità dei manti nivologici riducono ulteriormente le finestre utili per ricostituire i bilanci glaciali. Gli episodi documentati negli ultimi anni mostrano un trend che anticipa l’inversione stagionale e accelera la perdita di massa. Per chi gestisce impianti, bacini o rifugi, questo significa pianificazioni più incerte e costi operativi crescenti.
Nelle città italiane, la vulnerabilità cresce. Rapporti ISPRA e SNPA documentano l’aumento di allagamenti improvvisi, bombe d’acqua, venti estremi e ondate di calore che colpiscono Roma, Milano, Napoli, Bologna, Torino e molte altre aree urbane. L’effetto combinato di isola di calore urbana, consumo di suolo e reti fognarie inadatte amplifica impatti sanitari, sociali ed economici. Sulle coste, l’innalzamento del mare – pochi millimetri l’anno, ma costanti – si somma a subsidenza ed erosione: zone come il Nord Adriatico, il litorale laziale e parti di Sicilia e Sardegna mostrano arretramenti che non potranno essere contrastati solo con nuove barriere.
Quando si parla di hotspot mediterraneo, non si usa uno slogan. Nel vocabolario dell’IPCC e del network MedECC, il Mediterraneo combina pericoli climatici – più caldo, meno piogge estive, mare più alto e acido, eventi estremi – con vulnerabilità socioeconomiche che amplificano ogni impatto. Nel 2025, il record di ondate di calore marine ha mostrato quanto rapidamente l’energia accumulata dal mare possa trasformarsi in temporali violenti, runoff urbano, raffiche che abbattono alberi e infrastrutture. Allo stesso tempo, periodi di stasi atmosferica peggiorano la qualità dell’aria e aggravano patologie respiratorie nelle grandi città.
L’Italia dispone ora di un Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC), approvato con Decreto n. 434/2023 ed entrato in vigore nel 2024. È una cornice che funziona solo se regioni, comuni e gestori traducono obiettivi in cantieri reali: drenaggi urbani sostenibili, rinverdimento diffuso, efficientamento idrico, manutenzione dei versanti alpini, ripristino degli ecosistemi costieri, monitoraggi marini e montani più fitti. Le priorità operative richiedono una regia centrale e competenze diffuse, perché i dataset di Copernicus – tra C3S e CMEMS – sono utili solo se integrati nella pianificazione quotidiana.
Molti si chiedono se superare in alcuni anni la soglia di +1,5°C significhi aver già oltrepassato un punto di non ritorno. La scienza risponde di no: la soglia dell’Accordo di Parigi riguarda medie pluridecennali. Ma ogni superamento prolungato aumenta la probabilità e la gravità degli impatti e riduce il margine di adattamento. Ogni decimo di grado conta.
Il 2025 lascia tre messaggi chiari: il Mediterraneo è un banco di prova anticipato di ciò che accadrà altrove; le Alpi sono una infrastruttura naturale che si sta trasformando più rapidamente di quanto previsto; la combinazione tra mare caldo e città dense è un moltiplicatore di estremi. Intanto, un cartello su un sentiero di montagna e un bollettino marino con una SST di 24°C in giugno raccontano la stessa storia: un linguaggio di segnali che chiede di leggere bene la mappa prima di scegliere la traiettoria.
Guardando al 2026, gli indicatori chiave non si presenteranno sotto forma di liste ma come segnali concatenati: le temperature superficiali del Mediterraneo tra maggio e giugno riveleranno la probabilità di nuove ondate di calore marine; lo zero termico primaverile e invernale anticiperà la stabilità o la fragilità del manto nevoso; i bilanci di massa glaciali 2025/26 diranno se dopo due anni molto negativi la perdita proseguirà; le notti tropicali, gli allagamenti urbani e l’effetto isola di calore misureranno la riuscita degli interventi nelle città; l’attuazione del PNACC mostrerà se la governance avrà davvero intrapreso la rotta del cambiamento.
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