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Suicidio assistito: le 51 domande che raccontano il vuoto della legge

Lo studio che ricostruisce cinque anni di richieste e di contraddizioni istituzionali

Suicidio assistito: le 51 domande che raccontano il vuoto della legge

Suicidio assistito: le 51 domande che raccontano il vuoto della legge

All’ingresso di una Azienda sanitaria del Nord-Est, una cartella clinica porta una data: 28 novembre 2023. Quel giorno “Anna” – nome di fantasia – compie in Italia il primo suicidio assistito interamente gestito e fornito dal Servizio sanitario nazionale. Farmaco e dispositivo li garantisce una struttura pubblica, in esecuzione dell’ordine del Tribunale di Trieste. È un fotogramma che pesa più di molte statistiche: dietro quella cartella ci sono mesi di istanze inevase, ricorsi, pareri del Comitato etico, un dettato della Corte costituzionale che dovrebbe essere lineare e invece viene applicato a macchia di leopardo. Intanto, tra il 2019 e il 2025, le richieste formali hanno raggiunto quota 51, un numero piccolo eppure capace di incrinare l’equilibrio tra diritto, sofferenza e burocrazia. Nel vuoto legislativo, il percorso che va dal letto del paziente alla verifica dei requisiti resta incerto, diseguale, spesso appeso ai tribunali. È la radiografia offerta dallo studio pubblicato su Frontiers in Psychiatry dai ricercatori Emanuela Turillazzi, Naomi Iacoponi, Donato Morena e Vittorio Fineschi.

Per capire come si sia arrivati a questa frattura bisogna tornare alla sentenza 242/2019 della Consulta, erede del caso Cappato–Dj Fabo. La Corte ha dichiarato incostituzionale, in parte, l’art. 580 c.p., escludendo la punibilità dell’aiuto al suicidio quando la persona è affetta da patologia irreversibile dalle conseguenze intollerabili, dipende da trattamenti di sostegno vitale, è pienamente capace di decidere ed è sottoposta a una verifica pubblica in una struttura del SSN con parere del Comitato etico competente. Un perimetro ribadito nel 2024 con la sentenza 135/2024, che ha ampliato la nozione di TSV, includendo procedure assistenziali senza le quali la morte sopraggiungerebbe in breve tempo, e ha chiarito che il diritto a rifiutare trattamenti riguarda anche chi avrebbe bisogno di avviarli ma li respinge. Infine, nel 2025, la sentenza 66/2025 – il cosiddetto “Cappato ter” – ha respinto nuovi dubbi di costituzionalità, confermando il bilanciamento fra autodeterminazione e tutela della vita e rilanciando l’ennesimo appello al legislatore.

Nel frattempo, lo studio censisce 51 richieste tra il 2019 e il 2025, ricostruite incrociando atti giudiziari, comunicati delle ASL e materiali dell’Associazione Luca Coscioni. Non sono grandi numeri, ma ogni caso è un detonatore amministrativo. Gli autori descrivono un sistema frantumato, in cui ciò che la Consulta rende non punibile non diventa automaticamente un diritto esigibile. I procedimenti si inceppano sulle scrivanie, alcuni si paralizzano, altri approdano davanti a un giudice per ottenere ciò che sarebbe dovuto essere garantito dalla macchina pubblica.

Le storie emblematiche aiutano a capire. “Mario”, ovvero Federico Carboni, marchigiano, 44 anni, è il primo ad accedere al suicidio assistito in Italia, dopo un braccio di ferro con l’ASUR Marche e due tappe decisive in tribunale: muore il 16 giugno 2022, autosomministrandosi il farmaco. Quella vicenda costringe l’azienda sanitaria a definire farmaco e procedure “rapide ed efficaci”. “Anna”, 55 anni, Trieste, 28 novembre 2023, scrive una pagina nuova: primo suicidio assistito con copertura integrale del SSN, e riconoscimento come TSV dell’assistenza continua e della ventilazione notturna CPAP. Poi c’è “Serena”, Lombardia, gennaio 2025: nove mesi di ostacoli, farmaco garantito dal SSN, autosomministrazione finale. Infine “Gloria”, Toscana, morta il 9 febbraio 2025 in attesa da un anno del via libera dell’ASL, alla vigilia della legge regionale: la sua storia diventa simbolo dei tempi morti e della geografia delle opportunità. Altri nomi – “Vittoria”, Daniele Pieroni, Laura Santi – mostrano come ogni irrigidimento interpretativo generi contenzioso e spinga i giudici a correggere ciò che l’amministrazione non riesce a uniformare.

La frattura territoriale è il dato più evidente. La stessa procedura — verifica dei requisiti, parere del Comitato etico, definizione del farmaco e delle modalità — cambia radicalmente a seconda della regione, talvolta dello stesso CAP. Il Friuli Venezia Giulia è l’esempio più netto: l’ASUGI di Trieste ha reso pubblico un caso in cui le valutazioni tecniche hanno confermato la mancanza dei TSV malgrado il peggioramento clinico; la stessa azienda, nel caso di Anna, ha invece dato esecuzione immediata all’ordinanza del giudice, fornendo farmaco e dispositivo. Due esiti incompatibili, nello stesso territorio, a pochi mesi di distanza: il segno di una discrezionalità che rischia di diventare arbitrio.

Sul fronte legislativo nazionale, la Camera ha approvato nel marzo 2022 un testo quadro sulla morte volontaria medicalmente assistita, ma il provvedimento si è arenato al Senato. Nella legislatura successiva, vari disegni di legge non sono mai decollati. Nel vuoto, si è mossa la Regione Toscana con la legge “Liberi subito”, approvata l’11 febbraio e promulgata il 14 marzo 2025: un intervento organizzativo che impone tempi certi – venti giorni – per le verifiche. Il Governo l’ha impugnata rivendicando la competenza statale, aprendo un conflitto che finirà davanti alla Consulta e che, nel frattempo, congela la norma regionale proprio mentre in Toscana si registra il primo caso successivo all’approvazione.

La strada referendaria si era già chiusa nel febbraio 2022, quando la Corte ha dichiarato inammissibile il quesito sull’art. 579 c.p. per insufficiente tutela dei soggetti vulnerabili: una decisione che ha ributtato la responsabilità sul Parlamento, rimasto immobile. Da allora i pazienti attraversano un percorso scandito da attese interminabili, richieste di verifica dei requisiti della sentenza 242/2019, pareri dei Comitati etici, ricorsi giudiziari contro dinieghi o inerzie, e – per chi supera tutti gli ostacoli – la definizione del farmaco e delle modalità di autosomministrazione. Il nodo non è più la liceità, ormai assodata, ma l’attuazione: quali procedure rientrano nei TSV? Quanto può durare l’istruttoria? Chi individua il medico disponibile? La 135/2024 ha ampliato la definizione di TSV, la 66/2025 ha confermato l’impianto e l’appello al legislatore, ma senza standard nazionali la discrezionalità resta una variabile incontrollata.

Intanto l’opinione pubblica corre più veloce delle istituzioni. I sondaggi dell’Eurispes nel 2023 indicano il 67,9% di favorevoli all’eutanasia e il 50% al suicidio assistito; nel 2025 i livelli restano alti per testamento biologico ed eutanasia. Un approfondimento del Corriere della Sera – Sette del marzo 2024 parla di un 74% di favorevoli al suicidio assistito. Percentuali che oscillano, formule che cambiano, ma un dato fisso: il Paese è più avanti della sua legge.

La giurisprudenza, intanto, tiene il punto: il suicidio assistito non è un diritto generale ad abbreviare la vita, ma una possibilità circoscritta dalle quattro condizioni e da una verifica pubblica. La Consulta ripete che tutto deve poggiare su un accesso effettivo alle cure palliative: senza un ventaglio reale di alternative, la libertà diventa illusione. In questo quadro, la spinta degli studi – come quello pubblicato su Frontiers in Psychiatry – converge verso tre urgenze: tempi perentori per le verifiche, protocolli nazionali per la somministrazione sicura alla luce dei chiarimenti sui TSV, trasparenza dei dati. È anche il senso dell’esperimento toscano, ma un modello così delicato non può vivere solo sull’iniziativa regionale, né dipendere dalla sorte geografica.

Le storie di Federico Carboni, Anna, Serena e Gloria rivelano un cortocircuito ormai strutturale: l’attesa come ostacolo, la difformità tra territori, la centralità dei giudici nel costringere le amministrazioni a fare ciò che la Costituzione già consente. Finché mancherà una legge nazionale, la “normalità” del percorso resterà l’eccezione.

E qui si arriva al centro del problema. L’Italia del suicidio assistito vive in un paradosso permanente: una Consulta che indica un sentiero praticabile, pazienti che chiedono ciò che la Corte ha già individuato come non punibile, medici che domandano regole chiare, Regioni che tentano di colmare il vuoto, tribunali che suppliscono. Ma senza una legge, quel sentiero si trasforma in una strada piena di curve e zone d’ombra. Le 51 domande non dicono solo quanti hanno chiesto: dicono quanto tempo passa tra una sofferenza giudicata intollerabile e una risposta dello Stato. È in quel tempo – fatto di carte, rinvii, valutazioni contrastanti – che si consuma la distanza tra la libertà di scegliere e la possibilità di farlo davvero. La prima è un fatto di coscienza; la seconda è un dovere della Repubblica.

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