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Gaza, la “zona più sicura” che non protegge: la storia di Ahed e le ombre sulla tregua di ottobre

La bambina di tre anni uccisa a Mawasi riapre il tema della sicurezza nelle aree umanitarie e delle verifiche annunciate dalle Forze di Difesa Israeliane, mentre organizzazioni internazionali confermano decine di vittime anche durante la tregua

Gaza, la “zona più sicura” che non protegge: la storia di Ahed e le ombre sulla tregua di ottobre

Gaza, la “zona più sicura” che non protegge: la storia di Ahed e le ombre sulla tregua di ottobre

La sera precedente, raccontano i vicini, Ahed Tareq al-Bayouk aveva chiesto alla madre solo un pezzo di pane. La mattina successiva, secondo fonti locali, la bambina di tre anni è stata colpita a Mawasi, la fascia sabbiosa a ovest di Rafah indicata nei mesi scorsi come la “zona più sicura”. Il suo corpo è stato trasportato al Nasser Hospital di Khan Younis, mentre intorno al loro tendone le famiglie sistemavano coperte e stoviglie cercando di convincersi che la tregua di ottobre potesse offrire un minimo di protezione. Non lo faceva. Il portavoce delle Forze di Difesa Israeliane (Forze di Difesa Israeliane) ha affermato che l’esercito “non è a conoscenza dell’attacco” e che verranno effettuate “ulteriori verifiche”. Nel frattempo, numeri e testimonianze descrivono una pausa dei combattimenti che, per i civili, continua a essere segnata da violenza e incertezze.

Secondo operatori e media locali, Ahed sarebbe stata colpita “all’esterno della Yellow Line”, il tracciato che delimita l’area di ripiegamento delle truppe israeliane stabilita nella prima fase della tregua. Le Forze di Difesa Israelianehanno dichiarato di non avere informazioni su uno scontro nella zona, annunciando controlli interni. Un copione noto: incidenti in aree ritenute a “rischio ridotto”, comunicati militari prudenti, verifiche annunciate. Rimane però il dato che Mawasi, definita dal 2023 “zona umanitaria”, non si è mai trasformata in un luogo realmente sicuro. Nel 2024 e nel 2025 si sono registrati attacchi mortali, documentati da testate internazionali e riconosciuti anche dal governo israeliano, che in più occasioni ha promesso indagini su colpi risultati devastanti per i civili.

Mawasi è una striscia costiera di una decina di miglia tra il mare e Khan Younis. Tra dicembre 2023 e l’inizio del 2024, le Forze di Difesa Israeliane vi dirottarono centinaia di migliaia di sfollati, definendola “zona più sicura”. In realtà offriva ben poco: sabbia, tende, scarsa disponibilità d’acqua, servizi minimi. Con l’avanzare delle operazioni su Rafah, le autorità israeliane ribadirono l’invito a riparare lì. Ma anche in quell’area sono caduti ordigni e proiettili, con stragi registrate e poi contestate. Dopo gli episodi più gravi, le autorità israeliane hanno sostenuto di avere usato munizionamento ridotto e sorveglianza aerea per limitare i rischi ai civili; in alcuni casi hanno attribuito le esplosioni a inneschi secondari, come depositi di armi nelle vicinanze. Anche queste versioni sono oggetto di contestazioni e analisi.

La morte di Ahed si colloca dentro la tregua di ottobre 2025. La prima fase del cessate il fuoco prevedeva ritiro parziale delle truppe israeliane dietro la Yellow Line, scambi tra ostaggi e detenuti e un aumento degli ingressi di aiuti. Le parti hanno però continuato ad accusarsi reciprocamente di violazioni: segnalazioni di colpi di artiglieria, droni, sparatorie e incursioni “mirate” si sono susseguite, così come rivendicazioni di attacchi contro presunti obiettivi militanti. Al 21 novembre 2025, UNICEF (Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia) parlava di una media di “quasi due bambini uccisi al giorno” dall’inizio della tregua. MSF (Medici Senza Frontiere) riferiva di pazienti colpiti da droni o fuoco vivo anche durante la pausa.

Sul piano diplomatico, i governi israeliani e i mediatori internazionali hanno evocato una “seconda fase” della tregua, con ritiro progressivo delle truppe, disarmo di Hamas, dispiegamento di una forza internazionale e definizione di un’amministrazione ad interim. Ma i dettagli restano in discussione. La presenza militare nell’area e gli spostamenti limitati dei civili mantengono alto il livello di vulnerabilità.

I numeri diffusi da diverse organizzazioni descrivono una tregua che non ha fermato la violenza. Secondo Amnesty International, dal 9 ottobre 2025 “almeno 347 persone, tra cui 136 bambini, sono state uccise” in attacchi israeliani. Organismi delle Nazioni Unite e ONG sanitarie riportano dati comparabili, pur con differenze dovute a metodologie e fonti. Secondo UNICEF, tra il 10 ottobre e il 21 novembre 2025 almeno 67 bambini sono stati uccisi in “incidenti legati al conflitto”, circa due al giorno, in un contesto di malnutrizione crescente e assistenza sanitaria allo stremo. MSFdescrive ferite compatibili con colpi d’arma da fuoco e attacchi aerei su civili, inclusi minori, nella stessa finestra temporale. Allargando lo sguardo dal 2023 in poi, Amnesty International e altre agenzie hanno documentato schemi di attacchi che hanno ucciso intere famiglie in aree senza evidenti obiettivi militari. Il dibattito legale su crimini di guerra, responsabilità e rispetto del diritto internazionale umanitario è aperto e incide sul negoziato politico.

Nel caso di Mawasi, le Forze di Difesa Israeliane hanno dichiarato: “non siamo a conoscenza di un nostro attacco” e “effettueremo ulteriori verifiche”. È una formula ricorrente nelle comunicazioni militari israeliane: in episodi analoghi si è parlato di “valutazioni tecniche”, uso di “munizionamento a ridotto potenziale”, indagini affidate a organismi interni. In vari casi, analisi successive hanno integrato o modificato le prime versioni ufficiali. Anche qui, eventuali chiarimenti dipenderanno da testimonianze, immagini, tracciati balistici e coordinate. Resta però la morte di una bambina di tre anni in una zona dove migliaia di civili si erano rifugiati seguendo indicazioni ufficiali.

Sul piano diplomatico, Washington, Doha e altri mediatori insistono per l’avvio della “fase due”: disarmo graduale, ulteriore ritiro delle forze israeliane, sicurezza dei valichi, dispiegamento di una forza internazionale e definizione di una governance ad interim. Il governo israeliano collega i passi successivi al recupero dei resti dell’agente di polizia Ran Gvili e a garanzie sul disarmo di Hamas. I vertici israeliani hanno però espresso scetticismo sull’ipotesi di uno Stato palestinese, segnale della fragilità delle trattative. La gestione della sicurezza lungo la Yellow Line, dove si moltiplicano episodi come quello di Mawasi, è un banco di prova concreto.

Questa storia conta perché le tregue richiedono meccanismi di monitoraggio chiari e canali di responsabilità rapidi. A Gaza, l’accesso limitato ai media e la fluidità delle linee operative producono zone d’ombra dove la ricostruzione dei fatti resta sospesa per giorni. Ed è in quelle zone che episodi come quello di Ahed avvengono. Conta anche perché Mawasi è diventata il simbolo di una protezione promessa e non garantita. Se persino la “zona più sicura” non protegge i minori, l’intero impianto della tregua perde credibilità. Gli indicatori umanitari – disponibilità di acqua, accesso ai farmaci, servizi ospedalieri e prezzi dei beni essenziali – descrivono un sistema vicino al collasso. In condizioni simili, ogni violenza aggiuntiva ha un impatto amplificato su una popolazione già provata.

Restano vari punti da chiarire: chi ha sparato a Mawasi, da quale posizione, con quale linea di tiro; se l’episodio è avvenuto oltre la Yellow Line nella parte assegnata ai civili palestinesi; quali protocolli operativi fossero in vigore e se siano stati rispettati; quali garanzie immediate siano realisticamente introducibili per ridurre nuovi rischi, dalle segnalazioni luminose all’aggiornamento delle mappe operative, fino alla presenza di osservatori indipendenti.

La vicenda di Ahed Tareq al-Bayouk non è un caso isolato. È un test della distanza tra ciò che la tregua di ottobrepromette nei documenti e ciò che accade nelle tende di Mawasi. E finché la protezione della popolazione civile rimarrà legata a linee ambigue, osservatori insufficienti e regole d’ingaggio interpretabili a posteriori, episodi come questo continueranno. A ricordarlo saranno sempre i più piccoli, perché i numeri – 347, 67, tre anni – corrispondono a persone con un nome.


Fonti utilizzate: UNICEF, MSF (Medici Senza Frontiere), Amnesty International, Nazioni Unite, Forze di Difesa Israeliane, media locali, testimonianze raccolte da operatori umanitari.

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