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08 Dicembre 2025 - 18:07
Maria Corina Machado
Sabato 6 dicembre 2025, nella luce pulita che attraversa la Plaza de España di Madrid, una bambina stringe un palloncino giallo-azzurro-rosso più grande di lei. Le scivola il filo fra le dita, mentre tutt’intorno esplode un coro che rimbalza contro i palazzi: «¡Libertad, libertad!» Le bandiere venezuelane ondeggiano come un mare inquieto, i cartelli con il volto di Maria Corina Machado sembrano moltiplicarsi a ogni passante. Un padre arrivato da Valencia (quella venezuelana) si ferma un attimo e mormora che no, non si tratta di nostalgia ma di un biglietto di ritorno. È uno dei tanti che hanno riempito la capitale spagnola insieme alle migliaia di manifestanti scesi in strada in più di 80 città del mondo, rispondendo allo stesso appello: sostenere la leader dell’opposizione alla vigilia del Premio Nobel per la Pace 2025. Nelle marce, una parola attraversa gli striscioni come un mantra: unidad. Quella che è mancata per anni, quella che ora la diaspora tenta di ricostruire mentre il regime la teme.
A Madrid sono centinaia. A Lima, Buenos Aires, Bogotá, Miami e New York diventano migliaia. Tutti legati da un doppio filo: celebrare il Nobel annunciato il 10 ottobre e usare l’eco internazionale per riportare al centro il tema dei diritti democratici in Venezuela. La motivazione del Comitato norvegese è netta: Maria Corina Machado è “un esempio straordinario di coraggio civile” per il suo impegno in favore della democrazia e di una transizione pacifica. La cerimonia è fissata a Oslo per il 10 dicembre, ultimo atto di un premio che non guarda al passato, ma incide sul presente.
Il riconoscimento piomba infatti in un momento in cui la leader, estromessa dalla corsa presidenziale del 2024 nonostante la vittoria alle primarie dell’opposizione, vive in clandestinità. Ha comunque confermato l’intenzione di ritirare personalmente il premio, mentre la Procura venezuelana minaccia di considerarla “latitante” qualora lasci il Paese. Lo stesso direttore dell’Istituto Nobel ha reso noto che Machado ha ribadito la sua presenza, mantenendo però riservati i dettagli del viaggio per motivi di sicurezza. Non è una minaccia astratta: il procuratore generale Tarek William Saab le attribuisce accuse che vanno dalla “cospirazione” al “terrorismo”, contestazioni che l’opposizione considera parte della strategia di criminalizzazione del dissenso.
L’unità dell’opposizione, per anni brandita e poi immediatamente smentita dai fatti, oggi appare più concreta. A Madrid, figure storicamente in contrasto hanno condiviso palco e parole chiave. Leopoldo López, in esilio dal 2020, ha ricordato davanti alla folla il caos istituzionale seguito al voto del 28 luglio 2024 insistendo che “non si deve cercare un governo altrove: esiste già un governo legittimo”, alludendo a Edmundo González Urrutia, candidato dell’opposizione e oggi rifugiato politico in Spagna. Secondo Isadora Zubillaga, una delle sue principali consigliere, il gruppo di González sta definendo in queste settimane piani operativi per una transizione ordinata a Caracas. L’idea è costruire all’estero ciò che la repressione impedisce in patria: un meccanismo coeso, con ruoli e responsabilità pronte nel caso si apra una finestra politica. Il Nobel diventa così un acceleratore di legittimità internazionale, uno strumento che la diaspora venezuelana trasformata in comunità organizzata tenta di utilizzare come leva diplomatica.
Per comprendere la forza di questo esodo basta guardare ai numeri. La piattaforma R4V (Refugees and Migrants from Venezuela, co-guidata da UNHCR e IOM) stima in 7,89 milioni i venezuelani rifugiati e migranti nel mondo, con oltre 6,7 milioni concentrati in America Latina e nei Caraibi. La Spagna è una delle capitali di questa diaspora: tra 390.000 e 400.000 residenti di origine venezuelana, in crescita costante, con una media di oltre 200 arrivi al giorno nella prima metà del 2024 secondo l’Istituto Nazionale di Statistica (INE) e gli osservatori migratori spagnoli. Una massa umana che non è più solo il prodotto di un’uscita forzata, ma una rete organizzata capace di mobilitarsi a livello transnazionale.
Mentre l’opposizione tenta un riallineamento, il quadro dei diritti umani resta immutato e cupo. La ONG Foro Penalregistra 884 prigionieri politici al 3 novembre 2025, di cui 711 civili e 173 militari, compresi 85 con doppia cittadinanza o stranieri. L’organizzazione segnala inoltre che i dati non includono le detenzioni di meno di 48 ore, diventate frequenti dopo le proteste post-elettorali del 2024. Dietro ogni numero c’è un nome, una storia, un monito: la repressione resta uno degli strumenti principali del potere.
Il peso politico del Nobel è enorme. Per il Comitato norvegese non è solo un riconoscimento individuale, ma un segnale mondiale in un’epoca di regressione democratica. Lo ha ribadito il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), sottolineando che la scelta riporta al centro temi come stato di diritto, opposizione non violenta, libertà di espressione e trasferimento pacifico del potere. Organizzazioni come Human Rights Watch e il Carter Center hanno definito il premio un’occasione per rilanciare gli sforzi diplomatici e umanitari. La stampa internazionale – da Al Jazeera al Washington Post – ha evidenziato l’impatto simbolico della decisione di premiare una politica che, nonostante la minaccia, ha scelto di non abbandonare il proprio Paese.
Il riconoscimento ha però complicato un equilibrio già fragile. Il Venezuela ha chiuso la propria ambasciata in Norvegia pochi giorni dopo l’annuncio del premio, scelta che Oslo ha definito “regrettable”. Un gesto che segnala irritazione e insieme la volontà di ridurre i canali diplomatici proprio mentre il mondo osserva. Alla base c’è il nodo mai sciolto della legittimità: le presidenziali del 28 luglio 2024, che il Consiglio Nazionale Elettorale – controllato dal governo – attribuisce a Nicolás Maduro senza fornire i dati di seggio, contro i conteggi dell’opposizione che rivendicano la vittoria di Edmundo González Urrutia. La frattura si è poi allargata a governi e istituzioni internazionali, alcuni dei quali nel novembre 2024 hanno riconosciuto González come “president-elect”, alimentando uno scontro diplomatico che ancora non si ricompone.
In assenza di trasparenza interna, la diaspora ha costruito una rete capillare di documentazione civica che oggi si trasforma in megafono politico nelle piazze del mondo. Il Nobel offre l'occasione di riportare al centro la questione della trasparenza elettorale, costringendo governi e organismi internazionali a riaprire un dossier che molti consideravano congelato.
Il countdown verso il 10 dicembre apre scenari delicati. Se Maria Corina Machado dovesse lasciare il Venezuela, Caracas potrebbe qualificare la sua partenza come fuga e rilanciare l’azione penale. Ma la sua presenza a Oslo amplificherebbe l’attenzione mediatica e aumenterebbe i costi reputazionali per qualunque iniziativa sproporzionata contro di lei. Le parole del responsabile dell’Istituto Nobel, che conferma la sua intenzione di essere presente, lasciano intuire che esista una cornice di sicurezza discreta e già concordata.
Madrid non è stata scelta per caso. Qui convivono una delle comunità venezuelane più grandi al mondo, un ambiente politico abituato a dialogare con l’opposizione e una rete di ONG che negli anni ha affinato strumenti di accoglienza e monitoraggio. Secondo stime ufficiali, i venezuelani residenti stabilmente sono circa 400.000, dieci volte più di dieci anni fa. La capitale accoglie un terzo dei nuovi arrivi, trasformandosi in un laboratorio della diaspora.
Le marce di dicembre hanno mostrato un’opposizione capace di superare antiche fratture, ma non hanno sciolto i nodi strategici su sanzioni, negoziati e rapporti con gli attori regionali. La pressione internazionale resta l’unica variabile esterna capace di modificare un equilibrio bloccato. Il Parlamento europeo – che in passato ha assegnato il Premio Sacharov ad attivisti venezuelani – e diversi centri di ricerca hanno già segnalato che il Nobel rappresenta un monito sulle condizioni delle democrazie. Ma a pesare davvero saranno le garanzie per il rientro in sicurezza dei leader e dei cittadini che vorranno tornare. Il Paese resta fragile, segnato da inflazione, servizi crollati ed emigrazione giovanile. Trasformare la piazza globale in forza istituzionale richiede piani profondi su sicurezza, giustizia transizionale, ricostruzione economica e reinserimento dei rimpatriati.
La storia, dunque, non si chiude a Oslo. Il 10 dicembre offrirà fotografie potenti, ma non un cambio di scenario immediato. Il ritorno di Maria Corina Machado senza arresti, la capacità dell’opposizione di mantenere un’agenda comune e il sostegno coerente della comunità internazionale saranno i tre fattori che decideranno se il Nobel diventerà un acceleratore di transizione o una splendida, dolorosa parentesi. Molte voci – dalle Nazioni Unite alle ONG – leggono già questo premio come una chiamata all’azione.
A Madrid, mentre il corteo si scioglie, la bambina del palloncino tricolore chiede alla madre se può tenere la bandiera. Non sa cosa sia un Nobel, ma riconosce un nome che tutti ripetono. Per gli adulti intorno a lei, quel nome è un punto d’appoggio: un simbolo che potrebbe trasformare una diaspora in un arco politico, una speranza in un percorso. E quel biglietto di ritorno gridato in piazza potrebbe smettere di essere un sogno e diventare un viaggio possibile.
Fonti utilizzate: Comitato Nobel norvegese; Istituto Nobel; R4V (Refugees and Migrants from Venezuela); UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati); IOM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni); Foro Penal; SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute); INE (Istituto Nazionale di Statistica spagnolo); Human Rights Watch; Carter Center; Al Jazeera; Washington Post; agenzie di stampa internazionali.
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