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Qualcosa di sinistra

Astensionismo, la malattia della democrazia italiana

Dati impietosi, disuguaglianze crescenti e piazze sempre più piene: il voto non è più percepito come uno strumento utile, soprattutto tra chi si sente escluso dall’agenda politica

Giorgia Meloni

Giorgia Meloni

I sintomi ci sono tutti, la diagnosi è fatta e ha trovato diverse e recentissime conferme, ma la cura?
«Per circa trenta anni della storia repubblicana ha votato il 93 per cento degli aventi diritto al voto. Poi, per un quindicennio, l’87; più tardi il 73; alle elezioni politiche del 2022 quasi il 64; ora, nelle elezioni regionali dei giorni scorsi, una minoranza, tra il 42 e il 45 per cento. Questo vuol dire che 5-7 milioni circa di elettori sono rimasti a casa».Quello che avete appena letto è il fulminante riassunto che fa dell’astensionismo politico in Italia «un fenomeno strutturale».
Gli studiosi distinguono fra astensionismo forzato (vale a dire per via di ostacoli concreti, come la mobilità, l’emigrazione, ecc.), astensionismo per disillusione (il rifiuto intenzionale del voto) e astensionismo intermittente (ci si reca alle urne a seconda della posta in gioco).

Nelle elezioni politiche del 25 settembre 2022, quelle che hanno portato Giorgia Meloni sullo scranno della presidenza del Consiglio dei ministri, si registrò un calo di partecipazione al voto di circa il 10 per cento rispetto alle consultazioni precedenti.

In questo quadro s’inserisce l’astensionismo femminile: alle elezioni regionali del novembre scorso è stato nettamente più alto di quello maschile: su cento elettrici, poco più di quaranta sono andate a votare. Il non voto femminile si è ripetuto in tutte le regioni, indipendentemente dal colore politico dei candidati e dai contesti territoriali.
È vero che, anche nel resto dell’Europa, le cose non vanno bene: cala la partecipazione politica un po’ dappertutto, e non siamo i soli a non aver le idee chiare sui rimedi.

Quando, negli anni Novanta del secolo scorso, comparvero le prime avvisaglie di questa epidemia, mi capitò di ascoltare, tra numerosi altri, un’autorevole personalità – oggi a Bruxelles – sostenere che il non voto equivalesse a un assenso allo «status quo», senza alcuna preoccupazione che la bocciatura potesse riguardarli, anche solo indirettamente.
Al presente invece si addice la fulminante espressione «piazze piene e urne vuote»: da un po’ di anni ci si crogiola nella convinzione che la mobilitazione di piazza si traduca in adesioni elettorali, cioè che le proteste si trasformino in voti. Ma adesioni a che cosa?

La coalizione alternativa alla destra (non possiamo dire la sinistra, che ‘sto campo largo non si capisce che perimetro ha) dovrebbe chiedere consensi su proposte e non stare insieme su proteste.
Gli studiosi sono convinti che vi sia una correlazione diretta tra disuguaglianza salariale e astensione. All’aumentare del divario economico, cresce la quota di non votanti.

Il risultato? Coloro che hanno alti redditi partecipano al voto, gli altri non si recano alle urne: il rifiuto attivo di chi non si sente rappresentato.
Come ci è capitato di vedere a Torino, i votanti calano nei quartieri popolari, ma non nei centri delle città. Difficile infatti ritenere che il proprio voto conti, quando l’agenda politica non ci ha in nota.

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