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07 Dicembre 2025 - 19:34
Benin, fallisce un golpe all’alba: militari in TV, spari a Cotonou e 14 arresti
All’alba Cotonou si risveglia con il rumore che la storia del Benin sembrava aver consegnato alle sue stagioni più oscure: raffiche secche, brevi, intermittenti, il linguaggio di un potere che prova a cambiare volto con la forza. Sono circa le 7:30 di domenica 7 dicembre 2025 quando i colpi d’arma da fuoco risuonano vicino alla residenza del presidente Patrice Talon, a pochi metri dall’ambasciata di Francia. Passano pochi minuti e otto uomini in mimetica compaiono sui canali della televisione pubblica SRTB (Société de Radio et Télévision du Bénin), elmetti ancora storti, fucili in vista, voce ferma: annunciano la destituzione del presidente, la sospensione delle istituzioni, la chiusura dello spazio aereo e dei confini. Proclamano la nascita del cosiddetto “Comitato militare per la rifondazione”, indicando il tenente colonnello Pascal Tigri come nuova guida del Paese. La trasmissione dura pochi minuti, poi cala il nero. Nel frattempo, le strade attorno ai palazzi del potere cominciano a riempirsi di pattuglie e presidi, mentre la capitale si interroga se stia assistendo a un colpo di Stato riuscito o al suo tentativo maldestro.
La risposta arriva nel giro di poche ore. Il ministro dell’Interno Alassane Seidou appare in video e assicura che le Forze armate sono rimaste “leali alla Repubblica”, che la catena di comando ha resistito e che il tentativo di golpe è stato “sventato”. Le fonti ufficiali e quelle internazionali concordano nel parlare di tredici o quattordici militari arrestati, anche se non è ancora chiaro se lo stesso Tigri, il presunto leader, sia tra i fermati. La SRTB torna operativa dopo un’interruzione tecnica e la città si muove in un silenzio che non somiglia alla calma, ma a un’attesa. Le ambasciate di Francia e Stati Uniti confermano ai propri cittadini di aver ricevuto segnalazioni di spari nell’area della presidenza e invitano alla prudenza. Nel pomeriggio, ECOWAS (Economic Community of West African States, Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale) e Unione Africana condannano senza esitazioni l’azione dei golpisti, definendola “incostituzionale”.
Le prime ricostruzioni indicano che i colpi iniziali arrivano dall’area vicina alla residenza del presidente. Alcune fonti parlano di almeno due vittime, ma la stima non è ancora verificata. Subito dopo gli spari, il gruppo armato riesce a entrare negli studi della SRTB, l’emittente pubblica riformata nel 2025 e diventata il principale megafono istituzionale del Paese. La loro scelta non è casuale: pochi minuti di diretta possono sembrare l’anticamera del potere, soprattutto in un Paese dove la televisione pubblica rappresenta ancora un luogo simbolico di autorità. Ma come conferma un ufficiale regionale citato dai media locali, “finché non hai fisicamente il presidente, non hai il controllo”. Ed è esattamente ciò che i golpisti non sono riusciti a ottenere.
Il messaggio letto in diretta dagli ammutinati contempla tre accuse principali: il deterioramento della sicurezza nel nord del Paine, la mancanza di attenzione verso i soldati caduti e le loro famiglie e presunte “promozioni ingiuste” all’interno delle Forze armate. Sono accuse che intercettano ferite reali, perché dal 2021 il nord del Benin è attraversato dagli attacchi di gruppi jihadisti provenienti dal Sahel, che hanno trasformato la regione in una frontiera instabile. Il 17 aprile 2025, nel Parco nazionale W, un assalto rivendicato dalla sigla JNIM (braccio affiliato ad Al-Qaeda) ha ucciso almeno cinquantaquattro soldati beninesi. Un trauma ancora vivo, che tocca famiglie e reparti e che gli insorti hanno provato a trasformare in leva politica.
Nelle prime ore dopo il tentativo, Patrice Talon non rilascia dichiarazioni pubbliche. Una fonte diplomatica dell’Africa occidentale riferisce che il presidente sarebbe “in sicurezza” e “fiducioso” nel contenimento dell’insurrezione. Nel frattempo audio e video non verificati iniziano a circolare sui social, come accade sempre più spesso nella regione, dove la comunicazione parallela corre più veloce dei comunicati ufficiali. La fragilità narrativa diventa parte integrante della crisi: ciò che appare in TV per pochi minuti rischia di avere un impatto più profondo degli eventi reali.
Il contesto politico rende tutto più instabile. Ad aprile 2026 il Benin andrà al voto per scegliere il successore di Talon, al suo secondo mandato. La maggioranza ha indicato come delfino l’ex ministro delle Finanze Romuald Wadagni, considerato un esponente della continuità. A fine novembre 2025 il Parlamento ha approvato una riforma costituzionale che aumenta da cinque a sette anni la durata del mandato presidenziale e parlamentare, mantenendo però il limite dei due mandati, e introduce un Senato da venticinque-trenta membri. La riforma è in attesa della convalida della Corte costituzionale e dovrebbe entrare in vigore dopo il voto del 2026, ma l’opposizione teme che possa consolidare il controllo dell’attuale establishment ben oltre la scadenza di Talon. In un quadro così teso, anche una piccola fronda militare può illudersi di cogliere un momento di incertezza.
Sul piano regionale, la condanna è unanime. La ECOWAS parla di “attacco alla democrazia”, l’Unione Africanaribadisce la “tolleranza zero” verso ogni cambiamento incostituzionale di governo. Le istituzioni africane si muovono secondo un copione ormai consolidato dopo la lunga sequenza di colpi di Stato che ha attraversato il continente negli ultimi anni, dalla fascia saheliana alle coste orientali. Per un Paese percepito come stabile dal 1991, una parentesi anche breve di disordine rischia di propagarsi oltre confine.
Rimangono tuttavia diversi interrogativi: quanti reparti erano coinvolti oltre agli otto militari apparsi in TV? In che modo il gruppo ha superato le misure di sicurezza ed è entrato negli studi della SRTB? Esistono complicità interne ai ranghi o appoggi politici non dichiarati? E soprattutto: dov’è Pascal Tigri? La mancanza di conferme sulla sua cattura alimenta speculazioni e teorie che il governo tenta di arginare. Le autorità parlano di un ritorno progressivo alla normalità istituzionale, ma ammettono che le verifiche sono in corso.
La crisi si innesta su una società che, pur registrando miglioramenti macroeconomici sotto la presidenza Talon, resta segnata da disuguaglianze nella distribuzione dei benefici. L’industrializzazione del cotone e l’arrivo di investimenti non hanno cancellato le difficoltà del ceto medio e la frustrazione di una parte della gioventù urbana. Alcuni settori dell’opposizione denunciano procedimenti giudiziari mirati e un irrigidimento dello spazio politico. In questo scenario, la candidatura di Wadagni viene percepita dagli oppositori come una prosecuzione lineare del potere, mentre i sostenitori la presentano come garanzia di stabilità.
La mattina dei fucili e dei militari negli studi televisivi lascia tre tracce. La prima: l’apparato statale, nonostante tutto, regge. La seconda: la dimensione simbolica del potere resta vulnerabile, perché basta una telecamera e un messaggio urlato nel microfono per incrinare la percezione di stabilità. La terza: il Paese mostra fragilità strutturali che non possono essere coperte da comunicati ufficiali o repressioni selettive. Il nord, le riforme contestate, il calendario elettorale e il contesto regionale disegnano una miscela che potrebbe ripresentarsi.
Nelle prossime ore si attende un bilancio ufficiale su feriti e vittime, la conferma degli arresti e indicazioni chiare sul destino di Pascal Tigri. Si attende soprattutto una presa di posizione politica che vada oltre la condanna del golpe: servono risposte sulle critiche sollevate — anche se strumentalmente — dagli insorti. Sul fronte internazionale, la ECOWAS potrebbe intensificare il monitoraggio e valutare ulteriori misure di pressione, mentre l’Unione Africanaribadisce la cornice normativa che il Benin è chiamato a rispettare.
A chi è a Cotonou o in viaggio nel Paese, le ambasciate raccomandano di seguire scrupolosamente le indicazioni delle autorità locali. Sul piano informativo, resta centrale un principio semplice: in queste ore la chiarezza dei fatti è fragile, e i contenuti non verificati che circolano sulle piattaforme digitali rischiano di deformare la percezione della realtà più dei proiettili che hanno attraversato l’aria all’alba.
Il Benin ha conosciuto il sapore dei golpe in passato, ma dal 1991 si era costruito una reputazione di stabilità. La mattina del 7 dicembre 2025 non distrugge quella immagine, ma la incrina. In televisione è andata in onda una promessa di rifondazione; nella realtà, ha resistito la legalità. Ora, alla politica spetta evitare che quella scena — un fucile in primo piano, un casco troppo grande, un proclama di potere improvvisato — si ripresenti un giorno sugli schermi.
Tra i punti fermi raccolti finora, il presidente Patrice Talon resta in carica dal 2016 e lo sarà fino al 2026; gli insorti sono otto militari apparsi in TV e attribuiti alla guida del tenente colonnello Pascal Tigri; il comitato proclamato si chiama “Comitato militare per la rifondazione”; l’emittente occupata è la SRTB, nata dalla riforma della vecchia ORTB; gli spari sono stati avvertiti alle 7:30 del 7 dicembre 2025; gli arresti dichiarati sono tredici o quattordici; ECOWAS e Unione Africana hanno condannato immediatamente il tentativo; la situazione di sicurezza resta segnata dall’attacco jihadista del 17 aprile 2025 nel Parco W; le riforme costituzionali prevedono un mandato presidenziale e parlamentare esteso a sette anni e l’istituzione di un Senato, in attesa della convalida della Corte costituzionale per l’applicazione dopo il voto del 2026.
Fonti utilizzate: Reuters, AP News, Washington Post, Financial Times, ECOWAS, Unione Africana, comunicazioni ufficiali del Ministero dell’Interno del Benin, ambasciate di Francia e Stati Uniti a Cotonou.
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