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Elon Musk contro l’UE: la maxi-multa da 120 milioni che può cambiare il futuro dei social

La Commissione europea sanziona X per violazioni del Digital Services Act, Musk parla di “Stasi” e chiede di abolire l’UE: uno scontro che apre un precedente per tutto il mondo digitale

Elon Musk contro l’UE: la maxi-multa da 120 milioni che può cambiare il futuro dei social

Elon Musk

C’è un sabato sera di dicembre in cui il linguaggio asciutto di un comunicato europeo si scontra con la violenza di un feed in fiamme. Da una parte, Bruxelles elenca con tono burocratico tre violazioni e un cifra precisa: centoventi milioni di euro. Dall’altra, il proprietario della piattaforma colpita, Elon Musk, risponde con una serie di post sempre più incendiari in cui scrive che “l’UE dovrebbe essere abolita”, paragona i commissari europei alla “Stasi” e promette un gigantesco “effetto Streisand”. L’immagine è quella di due mondi che non si parlano: il lessico tecnico di una norma europea contro la narrativa improvvisata di un imprenditore che trasforma ogni contestazione in spettacolo. Il palcoscenico, però, nasconde un punto fondamentale: questa è la prima applicazione davvero muscolare del Digital Services Act (Digital Services Act – DSA), la legge che pretende di imporre trasparenza e responsabilità ai giganti della tecnologia.

La decisione di Bruxelles colpisce X (l’ex Twitter) con una sanzione da 120 milioni per tre violazioni delle regole di trasparenza previste dal DSA. È la prima multa ufficiale dopo un’indagine durata tra il 2024 e il 2025. La Commissione contesta il design “ingannevole” della spunta blu, l’opacità del repertorio pubblicitario e gli ostacoli all’accesso ai dati per i ricercatori. Il DSA vieta i cosiddetti “dark patterns”, le interfacce che sfruttano ambiguità o confusione per orientare il comportamento degli utenti. Nel caso di X, sostiene l’esecutivo, la storica spunta blu — un tempo certificazione di identità — è stata trasformata in un servizio acquistabile senza alcuna verifica significativa di chi controlli l’account. Questo avrebbe esposto utenti, enti, giornalisti e perfino istituzioni al rischio di truffe e impersonificazioni. Secondo la Commissione, anche il database delle inserzioni non rispetta i requisiti minimi di consultabilità previsti dalla legge, mentre ai ricercatori accreditati non sarebbe stato garantito l’accesso ai dati pubblici necessari per analizzare i rischi sistemici della piattaforma.

Ricostruzioni di stampa indicano che la multa sia stata calcolata per capitoli: circa 45 milioni per la spunta blu, 40 per i dati dei ricercatori e 35 per il registro degli annunci. Il totale resta inferiore al tetto massimo che il DSA prevede per violazioni gravi o ripetute: fino al 6% del fatturato globale. La vicepresidente esecutiva responsabile della Sovranità tecnologica, Henna Virkkunen, ha riassunto la linea dell’UE affermando che “ingannare gli utenti con le spunte, oscurare le informazioni sugli annunci e chiudere la porta ai ricercatori non hanno posto online nell’Unione”. Da Bruxelles sono partite anche scadenze operative: sessanta giorni per correggere il sistema di verifica degli account e novanta per risolvere le lacune su pubblicità e dati, con il rischio di ulteriori sanzioni in caso di mancato allineamento.

La risposta di Elon Musk non è arrivata con il tono di un amministratore delegato, ma con quello di un polemista digitale che trasforma ogni contesa normativa in un referendum culturale. Sui suoi profili ha scritto che “l’UE dovrebbe essere abolita e la sovranità restituita alle nazioni”, definendo la multa un attacco personale e accusando la Commissione di essere un apparato “woke” paragonabile alla “Stasi dell’UE”. Ha promesso di dimostrare alle istituzioni europee il vero significato dell’“effetto Streisand”, cioè il paradosso per cui tentare di attenuare la diffusione di un contenuto ne amplifica la visibilità. È utile ricordare che il provvedimento ufficiale non cita responsabilità personali: la sanzione riguarda la società, non la persona fisica di Elon Musk. La sua rivendicazione è una costruzione narrativa, non un’annotazione giuridica.

Dietro lo scontro sulla spunta blu c’è una questione che tocca il cuore dell’ecosistema informativo contemporaneo. Prima del 2023, il simbolo identificava figure verificate: giornalisti, enti pubblici, rappresentanti istituzionali. Con il modello introdotto da Elon Musk, la spunta è diventata un benefit dell’abbonamento a X Premium, legato a requisiti minimi come una foto profilo e un numero di telefono, ma senza un controllo sistemico dell’identità. Per la Commissione, trasformare un segnale di autenticità in un privilegio commerciale confonde gli utenti e distorce il mercato informativo. Nella stagione delle campagne d’influenza e della disinformazione, distinguere tra status e identità è un elemento decisivo per la qualità della sfera pubblica.

Il DSA riserva obblighi rafforzati alle piattaforme con oltre 45 milioni di utenti nell’Unione, le VLOPs (Very Large Online Platforms). Oltre alla trasparenza, queste piattaforme devono valutare i rischi sistemici, mitigarli, sottoporsi ad audit indipendenti e produrre report pubblici regolari. L’accesso ai dati per la ricerca è uno dei pilastri di questo sistema: senza dataset verificabili sulle dinamiche interne di diffusione dei contenuti, la supervisione pubblica diventa un esercizio teorico.

La multa notificata ora riguarda la trasparenza, ma non è l’unico fronte aperto. Rimangono in corso verifiche su contenuti illegali e manipolazione informativa. In caso di violazioni gravi, il DSA consente sanzioni di un ordine di grandezza molto maggiore. Nel frattempo, X dovrà presentare entro sessanta giorni un piano per ripristinare una verifica autentica delle identità e, entro novanta, un pacchetto di interventi su pubblicità e dati. La società potrà ricorrere ai tribunali dell’UE, ma dovrà dimostrare che il provvedimento è infondato: una strada mai semplice, soprattutto quando la Commissione documenta rischi per i consumatori.

Marco Rubio

Marco Rubio

Dagli Stati Uniti, lo scontro si è subito trasformato in materia politica. Figure vicine all’amministrazione Trump, come il segretario di Stato Marco Rubio e il vicepresidente J. D. Vance, hanno descritto la sanzione come un attacco alla libertà di espressione delle aziende tecnologiche americane. Il presidente della FCC (Federal Communications Commission), Brendan Carr, ha parlato di una “tassazione mascherata”. In queste ricostruzioni, la questione della trasparenza viene spesso confusa con quella sulla moderazione dei contenuti, presentando il DSA come uno strumento di censura. Dall’altra parte, i funzionari europei ribadiscono che la legge non riguarda le opinioni, ma il funzionamento dei sistemi che determinano cosa vediamo e perché lo vediamo: chi paga gli annunci, come vengono mostrati, chi può studiarne gli effetti.

Definire la Commissione “Stasi” non è solo una provocazione. È un tentativo di spostare lo scontro da un piano regolatorio a uno moralistico, insinuando che la trasparenza imposta dal DSA sia una forma di controllo autoritario. Nella realtà, la Commissione non contesta contenuti o idee, ma modelli di design che possono fuorviare gli utenti. La domanda non è “posso dire ciò che penso?”, ma “posso strutturare un servizio in modo che non induca l’utente medio a credere ciò che non è?”. È una distinzione fondamentale che spesso si perde nel rumore del dibattito pubblico.

L’“effetto Streisand”, evocato da Elon Musk, è diventato un meme narrativo della vicenda, ma è un’immagine distorta. Qui non c’è tentativo di rimuovere contenuti, bensì richiesta di visibilità su come funziona la piattaforma. Se qualcosa, è proprio la reazione del proprietario di X ad aver amplificato il caso, attirando l’attenzione globale sulla multa e sul DSA. Allo stesso tempo, il paradosso sottolinea un punto: la legge europea cerca di ridurre le asimmetrie informative che generano distorsioni, non di nasconderle.

Questa vicenda crea un precedente per tre ragioni decisive. Dimostra che la fase iniziale di dialogo è terminata e che la Commissione è pronta ad applicare sanzioni anche su scelte di design e non solo su contenuti illegali. Ribadisce che la trasparenza sugli annunci è un elemento indispensabile per il dibattito democratico, soprattutto in un anno segnato da campagne elettorali e operazioni di influenza. Infine, sottolinea che senza accesso ai dati la ricerca indipendente non può verificare l’esistenza di reti coordinate, di fake ads o di manipolazioni sistemiche.

Il rapporto tra X e Bruxelles è stato conflittuale per tutto il 2024 e il 2025. Gli avvertimenti pubblici dell’allora commissario Thierry Breton, le indagini sulla disinformazione russa, gli scambi polemici alimentati dallo stesso Elon Musk hanno contribuito a un clima già teso. La sanzione arriva al termine di un anno in cui molte analisi esterne hanno segnalato criticità nella moderazione e nella gestione delle campagne d’influenza sulla piattaforma.

Da qui in avanti gli scenari sono tre. Il primo è l’adeguamento: X potrebbe presentare un piano credibile e allinearsi alle richieste, come già fatto da altre piattaforme che hanno evitato sanzioni più pesanti negoziando impegni vincolanti. Il secondo è lo scontro legale: la società potrebbe ricorrere alla Corte di giustizia dell’UE, pur sapendo che i tribunali europei tendono a riconoscere un ampio margine tecnico alla Commissione. Il terzo è l’escalation politica, con il rischio che la vicenda diventi un caso simbolo nel dibattito transatlantico sulla regolamentazione delle piattaforme.

L’appello di Elon Musk ad “abolire l’UE” è l’elemento più spettacolare e più irrealistico della vicenda. Raccoglie una corrente reale di insofferenza verso il livello sovranazionale quando interviene su temi tecnologici, ma ignora il funzionamento stesso del mercato digitale. Senza un coordinamento europeo, i colossi della rete dovrebbero negoziare con ventisette normative differenti; gli utenti perderebbero un quadro coerente di tutela; gli Stati vedrebbero indebolita la loro capacità di controllo. Il DSA nasce per evitare proprio questa frammentazione.

In fondo alla storia, resta una domanda semplice: cosa rende gli utenti meno manipolabili e la sfera pubblica più controllabile? La risposta passa da una verifica che torni a garantire l’identità e non un abbonamento; da un repertorio degli annunci che dica a tutti chi paga, chi viene raggiunto e perché; da un accesso ai dati che permetta ai ricercatori di analizzare rischi, bug, operazioni coordinate. Se prevale questa logica, lo scontro può generare un progresso. Se invece domina la narrazione del nemico da abbattere, l’unico “effetto Streisand” sarà una ulteriore polarizzazione.

Per Elon Musk, la questione non riguarda solo i 120 milioni. Tocca il cuore del suo modello di business e l’idea — assai declamata — di massima libertà di parola. Ma nel mercato europeo la libertà di espressione convive con altre esigenze: integrità delle informazioni, protezione dei consumatori, sicurezza, privacy. Il DSA cerca di armonizzarle. La domanda di fondo resta aperta: le grandi piattaforme sono disposte ad accettare la trasparenza come costo inevitabile di un ecosistema digitale credibile? O continueranno a presentare ogni intervento pubblico come censura, rinunciando a un dialogo che oggi appare inevitabile?

In questa vicenda, i numeri sono chiari — centoventi milioni di euro, sessanta e novanta giorni, il 6% potenziale — ma le conseguenze non lo sono. L’UE ha deciso di far valere il proprio ruolo regolatorio. E chi contesta la trasparenza dovrà, paradossalmente, essere altrettanto trasparente nel farlo.


Fonti utilizzate: comunicato della Commissione europea sul DSA; dichiarazioni di Henna Virkkunen; post pubblici di Elon Musk; ricostruzioni di stampa internazionale (Washington Post, Financial Times, Politico, Le Monde); analisi sul DSA pubblicate dal Joint Research Centre e da EU Digital Services Observatory.

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